Europa

La via giudiziaria e la via politica all’integrazione europea di Umberto Baldocchi

“Non moltiplicare la giustizia e non eccedere con la sapienza!” (Qohelet. 7/16). Si potrebbe quasi pensare che a queste parole, di antica e “abissale” saggezza, si sia paradossalmente ispirata, una volta tanto, la Corte del Lussemburgo nella Sentenza del 20 aprile scorso sulla Direttiva Bolkestein. La Corte europea, questo potentissimo ed efficace  “motore invisibile” dell’integrazione europea, sembra aver detto solennemente,  a sé stessa ed alle corti giudiziarie degli Stati membri, che in Europa non bisogna esagerare con la “via giudiziaria”, che bisogna ridare spazio alla politica vera, alla discrezionalità politica fondata sul confronto leale e competente, ridare spazio alla discretion più che alle rules. Peraltro in un momento in cui, da parte della Commissione,  si propone  di “ammorbidire” le governance rules (del Patto di stabilità e crescita) ma non certo  (o non ancora ?) di ampliare la discrezionalità politica delle altre istituzioni europee.

Non è comunque poco.  E, come già detto, appare sempre più strano il silenzio dei politici , dei maitres a penser ( si fa per dire), che “pontificano” nei talk show, e soprattutto degli europeisti più  “stagionati”, a partire da quelli che, sempre e comunque, chiedono più Europa.  Ma come? L’ “Europa” fa qualcosa di radicalmente innovativo e nessuno ha niente  di buono da annunciare?

Forse riflettere sulle sentenze, e non invece sugli eventi scandalistici e mediatici, o sulle battute estemporanee e “sgrammaticate” del solito politico di turno, su cui infierire e con cui scatenare una discussione-bagarre,  è un esercizio non  attrattivo o un esercizio da addetti ai lavori e non da cittadini  (e politici) comuni? Può anche essere che si ritenga così.

Io penso invece l’esatto opposto. Penso che riflettere sul testo di una Sentenza sia un modo esemplare di avvicinare la politica, una modalità che ogni cittadino europeo dovrebbe ogni tanto praticare, a partire dall’età della formazione scolastica. E per un motivo semplicissimo, perché il linguaggio giuridico è un linguaggio educativo,  che ci costringe a usare le parole nel loro senso appropriato e quindi ci costringe a  dialogare umanamente, cioè a rispondere, comprendendo l’altro, a chiunque ci interroga e a costruire così una comune umanità. Oggi purtroppo, nella società liquida e “socialmente distanziata” ci siamo ormai rassegnati ad una corruzione e manipolazione continua delle parole, simile a quella tipica dei totalitarismi del secolo scorso, fascismo incluso. Una corruzione che, al tempo stesso, scredita le istituzioni politiche  e mina la sincerità delle relazioni umane.

In realtà, come scrive Platone nel Fedone:  “il concetto – che si esprime sempre con la parola – vuole appropriarsi del suo nome per tutti i tempi”, cioè il contenuto concettuale per vivere deve affermare la sua sovranità sul nome e cioè sulla parola. E solo questo legame tra cosa (concetto) e parola dà senso al dialogo umano, rende possibile l’umanità interpersonale  dell’uomo.  E quindi rende possibile  anche la politica umana, che non ha nulla a che vedere con la pura affermazione del potere. Quale linguaggio più di quello giuridico, allora,  ci può aiutare in questa umanizzazione del dialogo?

Ebbene, finalmente una sentenza storica – sì una sentenza che definirei storica!- in modo esemplare  ristabilisce il legame tra cosa e parola, umanizza il diritto, rende possibile la politica, riaprendo una strada chiusa e sbarrata da decenni in Europa, ma prima di tutto in Italia. Gran parte della nostra tragedia, non solo italiana, sta davvero nelle parole, nasce proprio dalle parole, che non sappiamo più usare. Lo aveva capito un secolo fa un grande pensatore “europeo”, come Luigi Pirandello, che lo afferma  nelle sue pièces  più note.

Nel nostro caso il problema nasce in particolare in un paio di paroline, apparentemente in sé insignificanti, ma  di importanza straordinaria e decisiva entro il contesto in cui vengono usate, per il contenuto che esse veicolano, o possono veicolare.

Sentenza esemplare dunque questa del CGUE sulla Bolkestein per parecchi motivi.  Andiamo allora al cuore della questione, vedendone solo alcuni estratti, lasciando da parte aspetti anche se importanti, pur secondari rispetto al nostro obiettivo, che è quello di intendere il senso di alcune parole-chiave.  La Sentenza, rispondendo in modo puntuale, alle nove questioni poste dal giudice del rinvio, ribadisce il carattere auto applicativo della Direttiva Bolkestein e la necessità della sua applicazione persino a prescindere dall’interesse transfrontaliero.  Ma dedica poi ampio spazio ad una questione messa da parte  alla questione del senso vero dell’ espressione  scarsità della risorsa.

Per decidere della applicabilità dell’art. 12  della Direttiva Bolkestein (Direttiva 123/2006) intesa come Direttiva essenziale  per rendere possibile una situazione concorrenziale laddove le risorse siano scarse, la Sentenza  europea ribadisce, appunto, l’importanza preliminare della valutazione della scarsità delle risorse disponibili (nel caso delle concessioni balneari gli arenili e le coste). Laddove c’è scarsità assoluta la presenza dei concessionari prorogati impedisce infatti ogni accesso ai potenziali e nuovi concorrenti. Ora però, con una modalità del tutto inusuale per il diritto euro-unitario, noi non rintracciamo né in questa Sentenza, né nelle precedenti sullo stessi tema, né ancora in altre fonti giuridiche europee alcuna definizione del termine scarsità della risorsa. Evidentemente non può essere un caso, o una svista dei giudici. Non si era sinora prestato attenzione a  questa “anomalia”.

Come possiamo rispondere allora alla domanda, così essenziale: quando possiamo dire che davvero c’è scarsità una questione così essenziale all’applicazione della Direttiva?

Una prima risposta, una risposta perentoria al quesito era già pervenuta  dalla Sentenza notissima del Consiglio di Stato italiano  del  20 ottobre 2021. Rispondendo ad un giudice che poneva la questione dell’esistenza dei presupposti dell’applicazione dell’art. 12,  il Consiglio di Stato aveva ribadito che in Italia vi era indubbiamente scarsità, in molti casi, addirittura “inesistenza” della risorsa arenili.   Il Consiglio  di Stato aveva affermato, infatti, al punto 25 della Sentenza 20 ottobre 2021:

“In senso contrario non vale neanche valorizzare la mancanza del requisito della scarsità della risorsa naturale  sul quale peraltro la Corte di giustizia, nella sentenza Promoimpresa, ha rilevato che le concessioni sono  rilasciate a livello non nazionale bensì comunale, fatto che deve “esser preso in considerazione al fine di determinare se tali aree che possono essere oggetto di uno sfruttamento economico siano in numero limitato”[… ] I dati forniti dal sistema informativo del demanio marittimo (SID) del Ministero delle infrastrutture  rivelano che in Italia quasi il 50% delle coste sabbiose è occupato da stabilimenti balneari, con picchi che in alcune Regioni ( come Liguria, Emilia Romagna e Campania) arrivano quasi al 70%. Una percentuale di occupazione molto elevata specie se si considera che i tratti di litorale soggetti ad erosione sono in costante aumento e che una parte significativa della costa libera risulta non fruibile per finalità  turistico-ricreative, perché inquinata o comunque abbandonata. […] Pertanto nel settore delle concessioni demaniali con finalità  turistico-ricreative, le risorse naturali a disposizione sono scarse, in alcuni casi addirittura inesistenti, perché è stato già raggiunto – o si è molto vicini al – tetto massimo di aree suscettibili di essere date in concessione”.

Tutto chiaro, in apparenza! E tutto risolto in un battibaleno!  Nessun dubbio in merito. Risorsa dunque scarsa anche sul piano nazionale, o talvolta, localmente addirittura inesistente. Tutto deciso, dunque. L’amministrazione non avrebbe spazio autonomo  di valutazione della esistenza o meno della scarsità.  La valutazione essenziale per l’applicazione della direttiva  è già stata fatta, una volta per tutte dal giudice amministrativo.

Qualche dubbio però questa statuizione così perentoria deve averlo suscitato. Tanto è vero che la Sentenza europea del 20 aprile 2023 risponde ad una  questione del giudice del rinvio, che chiede se  “risulti coerente” coi fini della direttiva 2006/123 e dell’art. 49TFUE “la statuizione da parte del giudice nazionale relativa alla sussistenza , in via generale ed astratta, del requisito della limitatezza delle risorse” ovvero “se tale valutazione non debba intendersi riferita al territorio di ciascun comune  e quindi riservata alla competenza comunale”  (p. 13), il giudice europeo “spacchetta” intelligentemente la questione a lui posta, analizzandola  su due versanti, la modalità o approccio della valutazione della  scarsità, da un lato, e la competenza della titolarità soggettiva  a valutare la scarsità, dall’altro.

Questione preliminare, come argomenta il giudice europeo, è la modalità di valutazione.  Da questo infatti deve discendere, in ordine logico, la titolarità della competenza  e quindi del soggetto cui è riservato il decidere.

Valutazione globale e nazionale o valutazione locale e comunale della scarsità, allora?  Se, per la sentenza del Consiglio di Stato, questo non era il problema, e comunque la valutazione doveva essere fatta su base comunale, la Corte europea è di tutt’altro avviso. Quale modalità di valutazione allora?

I punti 46 e 47 sono chiarissimi in merito: (46)“…. l’articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2006/123 conferisce agli Stati membri un certo margine di discrezionalità nella scelta dei criteri applicabili alla valutazione della scarsità delle risorse naturali. Tale margine di discrezionalità può condurli a preferire una valutazione generale e astratta, valida per tutto il territorio nazionale, ma anche, al contrario, a privilegiare un approccio caso per caso, che ponga l’accento sulla situazione esistente nel territorio costiero di un comune o dell’autorità amministrativa competente, o addirittura a combinare tali due approcci.

Quindi non c’è un’unica valutazione possibile, un unico punto di vista. Valutazione globale e nazionale e valutazione locale e comunale vanno entrambe bene, Anzi possono anche combinarsi tra loro. Ma c’è molto di più.

Il punto  47 precisa: “In particolare, la combinazione di un approccio generale e astratto, a livello nazionale, e di un approccio caso per caso, basato su un’analisi del territorio costiero del comune in questione, risulta equilibrata e, pertanto, idonea a garantire il rispetto di obiettivi di sfruttamento economico delle coste che possono essere definiti a livello nazionale, assicurando al contempo l’ appropriatezza dell’attuazione concreta di tali obiettivi nel territorio costiero di un comune”.

Vale a dire che la Corte suggerisce e raccomanda la combinazione dei due approcci, per armonizzare tra loro gli obiettivi di sfruttamento economico e di appropriatezza della loro realizzazione entro il contesto locale specifico. Ma quale è l’organo competente, l’unico competente a combinare i due approcci? Non certo il  giudice nazionale (cioè, per noi, il Consiglio di Stato) e nemmeno il Comune, l’istituzione amministrativa più vicina al cittadino, che non può esprimersi sulla situazione globale. La “via giudiziaria” e la “via amministrativa”, ovvero i due canali classici dell’intervento europeo, in questo caso non possono essere  attivati per far valere l’ effetto diretto della norma europea.  E allora?  Allora la valutazione spetta alla discrezionalità degli Stati membri, come  espressamente dice la Sentenza.

Non restano  cioè che gli organi dello Stato – e qui la Sentenza non può dire di più – vale a dire l’organo rappresentativo, quello che elabora la legge, il Parlamento, insieme al Governo nazionale ed anche alla Conferenza Stato-Regioni, dato il peso regionale della questione demaniale.

La valutazione della scarsità/non scarsità della risorsa non può, sia pure entro parametri oggettivi, trasparenti e proporzionati,  che essere opera della valutazione di questi organi nazionali e regionali, dato che ad essi soli compete la formulazione della politica turistica e della politica demaniale, e quindi la tutela delle condizioni interne che rendano credibili anche gli adempimenti degli obiettivi di bilancio europei.  Pensiamo soltanto alla rilevanza del turismo nel PIL nazionale per far fronte ai problemi del rientro dal debito pubblico secondo la normativa europea.

Come potrebbe un organo diverso formulare obiettivi in grado di tutelare, insieme alla concorrenza, il PIL nazionale, le prospettive di  sviluppo ed, al contempo, le identità socio culturali ed economiche del  mondo turistico italiano, così importanti per tutelare la capacità di “concorrenza” italiana nel mercato turistico europeo? Compito vasto, e difficile, che farebbe “tremar le vene e i polsi”  anche a governi solidissimi, dato che tutto questo presuppone una normativa organica, che, riorganizzi politica demaniale e parte del Codice della navigazione, tutelando nel contempo la possibilità di ampliare il mercato, per aprirlo ad una maggiore concorrenza, difendendo le identità socio culturali degli attuali insediamenti di balneazione, anch’essi essenziali per equilibrare la concorrenza su un mercato europeo e mondiale in cui non può contare il solo rapporto prezzo/ servizio, garantire la fruibilità delle spiagge come bene disponibile al pubblico, assicurare la sostenibilità ecologica di tutto il sistema degli investimenti. Non poteva assicurare questo né una sentenza di un giudice, né potevano farlo mille decisioni scoordinate di singoli comuni costieri.

La Corte del Lussemburgo ha fatto dunque un piccolo miracolo. Non si è più comportata come la Corte delle quattro libertà di movimento (per le merci, i servizi, le persone e i capitali).  Ha, una volta tanto, operato per garantire la compatibilità del movimento dei capitali con le esigenze sociali dello sviluppo economico del singolo paese.  Ha aperto la porta a quella “unità che produce diversità”, che non è la via dei neo-nazionalismi, ma è la missione positiva che tiene insieme l’ Europa, senza alcun bisogno di nemici esterni da combattere. Ha dato una mano alla politica che può servire e preparare la pace, che tutti aspettano sempre più  ardentemente, nonostante le apparenze.

E lo ha fatto superando le chiusure e le rigidità di una Sentenza – quella del Consiglio di Stato- che sembrava mettere definitivamente fuori gioco la politica.  Alla statuizione del Consiglio di Stato che  escludeva tale ambito di discrezionalità politica la Corte europea ha replicato con puntualità precisando il senso –  frainteso – della sua precedente  sentenza, precisando  di non aver mai affermato che la scarsità andava valutata in ambito comunale.

Ai punti 44-45, la Corte precisa che, nella Sentenza del 14 luglio 2016, Promoimpresa e a. (C-458/14 e C-67/15, EU:C:2016:558), essa aveva precisato che “si deve prendere in considerazione la circostanza che le concessioni di cui trattasi sono rilasciate a livello non nazionale bensì comunale, al fine di determinare se le aree demaniali che possono essere oggetto di sfruttamento economico siano in numero limitato” . Ma tuttavia “…tale precisazione costituiva una mera indicazione rivolta al giudice del rinvio e si spiegava con il contesto della causa che ha dato luogo a detta sentenza”

La Corte europea ha aperto così una nuova prospettiva, ha aperto la strada ad una politica che, nel caso italiano, è stata finora “latitante” su un tema tanto essenziale per il suo futuro, quello del comparto turistico marino e lacuale, trincerandosi, nel caso delle forze di governo,  dietro il comodo regime delle proroghe delle concessioni reiterate all’infinito, e, nel caso dell’  opposizione, entro la comoda (e inconcludente) lotta ideologica contro i “mulini a vento” delle lobbies dei balneari o della mitizzazione dei beni comuni, disponibili gratis per tutti.

La politica che è solo potere, la politica che sa solo comandare, o che sa solo obbedire ai vincoli esterni o agli “ordini di scuderia”,  come la politica che sa solo gridare quando fa opposizione, e sa solo intimidire quando “governa”, è l’opposto di ciò che serve per integrare l’ Europa. E la Corte del Lussemburgo stavolta  ha detto alto e forte che bisogna lasciare spazio  ad una politica diversa,  che sa, anche e soprattutto,  discutere, confrontarsi  e analizzare le soluzioni congruenti ai bisogni, una politica quindi che prima di tutto sa ascoltare e rispondere alle questioni poste dai cittadini, dalle imprese e dai giudici che interrogano le Corti europee per adeguare il diritto ai bisogni concreti della società.

Che è poi la politica di cui abbiamo bisogno in Italia per affrontare il compito impegnativo del rinnovamento della politica del turismo balneare, un compito impegnativo quasi quanto la realizzazione del PNRR. Da oggi comunque sarà più difficile dire : “È colpa dell’ Europa” oppure  “Ce lo chiede l’Europa”.  Grazie ai giudici del Lussemburgo.  Evidentemente c’è un giudice al Lussemburgo, e non  solo a Berlino.  L’ Europa esiste laddove ci si confronta e laddove si discute con argomenti ragionevoli.  Dove si fa altro, o peggio,  si fa l’opposto, dove il potere è puro dominio, oppure pura forza armata, lì è solo  barbarie e non- Europa.  L’ Europa  è laddove  noi, col dialogo  e la ragionevolezza,  la facciamo vivere.

Pubblicato originariamente su politicainsieme.com