Internazionale

Il posto dell’Italia (n.21) nel nuovo disordine globale post egemonia-Usa di Leonardo Tirabassi

Il Medio Oriente impegna sempre di più l’America in declino. Il vero avversario di Washington (la Cina) attende di approfittare della crisi del  grande rivale

Notizie drammatiche dal Medio Oriente, con una guerra ormai estesa alla penisola arabica, coinvolgendo direttamente gli Stati Uniti, con a fianco i fedelissimi inglesi. Conflitto a bassa intensità dagli esiti micidiali per il commercio internazionale, fino a costringere la sempre riluttante Unione Europea a varare una propria missione di protezione marittima, a comando italiano. Fatto subito stigmatizzato dal leader Mohamed Ali al-Houti che ha minacciato direttamente Roma. L’azione degli Houthi a fianco di Hamas è di estrema importanza perché segna un allargamento del conflitto israelo-palestinese fuori dell’area, rendendo ancor più difficile l’opera di mediazione americana e dei suoi alleati. Anche perché le basi statunitensi sono diventate un bersaglio da colpire ad opera delle varie milizie alleate dell’Iran, come dimostra l’attacco alla base Tower 22 dove sono morti tre soldati americani. Attacco che ha costretto Biden a una difficile decisione. Da una parte a non lasciare senza risposta la provocazione, azione necessaria per ristabilire la deterrenza, ma allo stesso tempo calibrando la contromossa per evitare ogni pericolo di allargamento del conflitto, cioè in pratica considerando i miliziani autonomi dal padrino Iran. Fatto sinceramente poco credibile.

Quindi entrambe le azioni militari richiedono qualche riflessione in più.

La prima. Esse dimostrano la vulnerabilità sia delle rotte commerciali internazionali che passano per i famosi “colli di bottiglia” degli stretti.

La seconda. Sono tutte azioni belliche a basso costo per chi le intraprende e ad altissimo costo per chi deve fronteggiarle. Barchini, droni, missili imprecisi contro portaerei, fregate, bombardieri.

In terzo luogo, dimostrano i limiti della tecnologia, e mettono una pietra tombale sul sogno della guerra intelligente.

Quarto: sono guerre locali che saltano di livello diventando regionali con conseguenze internazionali, tessere del conflitto caotico ma reale che oppone in modo mutevole il resto degli Stati del mondo, non certo omogenei né portatori degli stessi interessi, tutti però con qualche rivendicazione contro la pax americana. E infatti anche nel caso del conflitto con lo Yemen, si assiste alla selezione degli obiettivi da colpire da parte degli Houthi – navi americane, israeliane, occidentali –, l’assenza di potenze extra Nato dalla difesa delle rotte del Mar Rosso, compreso il silenzio di India e Cina che pure vedono le loro merci transitare per quei mari.

Così la lotta in Palestina è diventata un altro capitolo della nuova guerra mondiale “a pezzi” aggiungendo un nuovo tassello alle debolezze dell’Occidente e dell’egemonia americana, che si vanno ad aggiungere a quelle già dimostrate in Ucraina. Guerra che ha messo in risalto i limiti dell’apparato produttivo manifatturiero dei Paesi occidentali che non riesce a tenere il passo con quello della Russia, come dimostrato ampiamente nel caso dell’approvvigionamento di munizioni, con l’artiglieria russa che spara 6mila colpi al giorno.

Guerre come banco di prova della tenuta dell’impero americano in evidente affanno in una sorta di over stretching di impegni che ne limitano l’efficacia. Stati Uniti costretti ad agire su troppi fronti, secondo molti osservatori, e secondo Trump, non rilevanti. Washington che ripercorre – si veda il suggestivo parallelo storico suggerito da Spengler, acuto osservatore di cose internazionali di Asiatimes – le orme degli imperi spagnolo e austriaco durante la guerra dei Trent’anni. Spagna e Austria, Stati con il doppio della popolazione della Francia, imperi ricchissimi che entrarono in guerra contro Svezia, Boemia, Danimarca, perdendo di vista il nemico principale, Luigi XIV e finendo esausti e costretti a lasciare il passo alla Francia alleata dell’Inghilterra.

Torniamo all’oggi. Crisi di consenso occidentale e di Israele, come rileva un allarmato documento del prestigioso RUSI, Royal Uniteted Service Institute del ministero della Difesa del Regno Unito, a proposito della guerra di Gaza. Crisi di consenso che prima o poi si trasformerà in crisi di egemonia a causa della perdita di leadership mondiale dei Paesi che costituiscono l’Occidente. Le attuali previsioni, infatti, indicano il passaggio entro il 2050 dal predominio dei Paesi del G7 ad altri Paesi compresi “gli emergenti 7” (Brasile, Cina, Indonesia, Messico, Russia e Turchia). Tra meno di 30 anni Cina e India supereranno gli USA come peso economico, mentre l’Indonesia salirà dall’ottavo al quarto posto, la Turchia dal quattordicesimo all’undicesimo e l’Arabia conquisterà due posizioni. Inoltre se Nigeria, Egitto e Pakistan entreranno nelle prime venti posizioni, Italia Spagna, Canada e Australia scivoleranno più in basso (con l’Italia che passerebbe dal 12 posto al 21esimo!). In poche parole il peso dell’economia mondiale si sta spostando a velocità impressionante verso Est.

Davanti ai fatti, conflitto in Medio Oriente e guerra russo-ucraina, capiamo meglio la posizione cinese. Di attesa attiva, retrovia sicura e silente di tutti gli sfidanti dell’ordine americano, dalla Russia all’Iran, al Venezuela. Che misura l’usura della forza americana, economica diplomatica e militare, e intanto produce in gran quantità sistemi d’arma efficaci e modernissimi, in primo luogo la marina e l’aviazione, e rafforza il suo apparato produttivo. Pronta a cogliere la mela che cadrà dall’albero.

Scenari impressionanti che fanno sembrare poca cosa i drammatici eventi bellici attuali. Se non stupisce il melodramma della politica italiana ormai ridotta ad avanspettacolo di provincia, che dire della politica USA forse in attesa delle prossime elezioni presidenziali? Quale mondo si immaginano nel futuro? Quale ruolo si vogliono ritagliare in un ordine già multipolare?

In attesa che il prossimo presidente degli Stati Uniti si insedi a Washington, a disegnare le linee della politica estera USA ci ha pensato il capo della CIA William Burns in un articolo su Foreign Affairs  dal titolo elequente Spycraft and Statecraft. Transforming the CIA for an Age of Competition. Burns non è solo un capo delle spie, è anche un super esperto di relazioni internazionali, che ha lavorato per anni ai dossier più scottanti. Epoca di passaggio la nostra, come fu il dopo guerra e il post 11 settembre. Lo snodo centrale è rappresentato dalla constatazione che “L’ascesa della Cina e il revanscismo della Russia pongono sfide geopolitiche scoraggianti in un mondo di intensa competizione strategica in cui gli Stati Uniti non godono più di un primato incontrastato e in cui le minacce climatiche esistenziali stanno aumentando”.

Conclusione semplice: Cina sfidante globale che condivide lo stesso mondo. Attore imperscrutabile le cui mosse rimangono tutte da decifrare. Tutto il resto, come direbbe Califano, “è noia”. Ma per capire la differenza tra l’oggi e il passato, tra come l’amministrazione americana si oppose all’Unione Sovietica, si rilegga quel long telegram che George Kennan nel luglio del 1947 mandò a Washington, quando in quelle 5.300 parole si gettarono le basi della strategia americana per tutta la guerra fredda.

Pubblicato originariamente su ilSussidiario.net.