A partire dall’estate giornali e televisioni hanno cominciato a parlare della manovra di bilancio per il 2025. I media governativi hanno elencato le prebende e le mance che il governo avrebbe garantito per il prossimo anno. I media più vicini all’opposizione hanno ribadito la scarsezza dei fondi e quindi le difficoltà per la spesa pubblica in sanità, istruzione, salario minimo e così via. Gli esponenti più accorti dell’opposizione hanno anche rilevato il trucco perpetuato l’anno scorso dal governo con interventi ad hoc per un solo anno, come la decontribuzione dal cuneo fiscale e la riduzione dell’Irpef, per riprodurre i quali nel 2025, o meglio per farli strutturali, richiedono più di 15 miliardi annui. Nessuno o quasi indicava nella presentazione entro il mese del Piano strutturale di Bilancio alla Commissione Europea il vero problema per la finanza pubblica italiana. Negli ultimi giorni si è cominciato a presentarlo come un documento che sostituiva la Nota di Aggiornamento del DEF (la NADEF) su cui modellare la Legge di Bilancio per i prossimi tre anni.
In realtà il PSB è qualcosa di diverso e del tutto nuovo in quanto scaturisce dalle nuove norme di disciplina fiscale che l’Unione si è data. E’ un documento che impegna il governo, e il Parlamento che lo approva dopo che è stato validato dalla CE, ad un piano di rientro dal debito di 4 anni, coerente con la situazione di partenza del paese. Il piano sarà settennale per l‘Italia proprio per le difficoltà di partenza, ma questo allungamento sarà concesso solo con un piano di riforme che ricalca quello del PNRR, ma con provvedimenti più incisivi e operativi, decreti legislativi invece di fumose leggi delega. Il piano di rientro sarà reso sostenibile dalla nuova Expenditure Rule, unico parametro di sorveglianza rispetto ai tre del precedente Patto di stabilità, anche se in parte questi rientrano inopinatamente. Il prossimo governo, che succederà al governo Meloni, lo prenderà in carico o lo modificherà ma con opportune argomentazioni verificate dalla Commissione.
Il 27 settembre il Consiglio dei Ministre ha dunque approvato il Piano strutturale di bilancio (PSB). Si tratta di un ponderoso scritto di oltre duecento pagine diviso in tre parti; gli obbiettivi strategici, il percorso macroeconomico e di finanza pubblica, le azioni di riforma e una serie di Appendici tecniche. Il Piano andrà alle Camere l’8 ottobre e poi alla Commissione europea. La Commissione ha già però influito sulla costruzione del piano con una serie di verifiche e raccomandazioni, culminato nel mese di giugno col Country Specific Recomandatios (CSR), per ciascun paese e quindi anche per l’Italia, e con la definizione delle traiettorie di finanza pubblica collegate al profilo di piano concordato, in sintesi dettando i “compiti” da svolgere a casa. In merito alla prima parte dedicata ai percorsi di finanza pubblica, in sintesi l’attuazione del PSB dovrà garantire i seguenti obbiettivi.
In primo luogo, alla fine del periodo di aggiustamento e in assenza di ulteriori misure correttive, il rapporto debito/PIL si deve collocare su un sentiero di riduzione plausibile o rimanere a livelli prudenti al di sotto del 60% nel medio termine e il disavanzo si deve mantenere al di sotto del parametro del 3% del PIL. Questa è la posizione di principio che convalida la prescrizione, sebbene sfumata, riferita ai parametri fissati dal Trattato di Maastricht.
In secondo luogo, il PSB deve rispettare una salvaguardia comune sul debito (debt safeguard)che prevede una riduzione media annua minima del rapporto debito/PIL, calcolata dall’anno precedente l’inizio della traiettoria (2024), o dall’anno in cui si prevede l’uscita dalla procedura per disavanzi eccessivi (v. infra), fino alla fine del periodo di aggiustamento, pari all’1% per i Paesi con un debito superiore al 90% del PIL, quindi l’Italia, e a 0,5% per i Paesi con un debito tra il 60 e il 90 per cento;
In terzo luogo, il Piano deve rispettare una salvaguardia di resilienza relativa al deficit (deficit resilience safeguard), secondo cui l’aggiustamento di bilancio deve continuare, se necessario, fino al raggiungimento di un livello di disavanzo strutturale pari all’1,5% del PIL, con un miglioramento annuale del saldo primario strutturale pari a 0,4 punti percentuali del PIL (ridotto a 0,25 punti in caso di estensione a sette anni, quindi per l’Italia).
Inoltre, l’Italia soggetta con altri sette stati membri alla procedura per disavanzi eccessivi (PDE) dovrà garantire un aggiustamento strutturale minimo annuo di 0,5% del PIL (cd. minimum benchmark). Questo requisito può interagire con l’aggiustamento stimato dalla Debt sustainability analysis (DSA), che è, come detto, definito in termini di saldo primario strutturale. Se la correzione stimata dalla DSA fosse maggiore, sarebbe quest’ultima a prevalere; se fosse minore, scatterebbe il minimum benchmark e la correzione sarebbe portata al livello minimo previsto dalla PDE.
Sulla base di questi obbiettivi, la Commissione con le raccomandazioni di giugno (CSR) ha calcolato, tenendo conto delle previsioni sull’andamento delle condizioni macroeconomiche, quale debba essere per ogni paese e quindi per l’Italia l’evoluzione della Expenditure rule, la regola sintetica della nuova disciplina. Si tratta di tenere, per i sette anni del piano, il tasso di crescita della spesa nominale primaria delle amministrazioni pubbliche (la c.d. spesa netta, al netto di componenti una tantum rivolte al controllo della disoccupazione in caso di flessioni del ciclo inattese e al netto delle spese da programmi UE, al di sotto del tasso di crescita nominale del PIL strutturale. Per l’Italia questa spesa netta non potrà crescere più dell’1,5% annuo in termini nominali. Successivamente all’approvazione del piano da parte del Consiglio dell’UE, il percorso di spesa netta indicato costituirà il riferimento operativo unico di sorveglianza di bilancio durante la fase di attuazione del piano. E questo costituisce un grande avanzamento di semplificazione procedurale delle nuove regole.
Non è difficile comprendere quali sono però le implicazioni più evidenti di una simile regola: se, nello stesso periodo, il tasso di inflazione medio si attesterà sul valore benchmark della BCE del 2%, la regola richiederà una riduzione in termini reali della spesa pubblica, consumi e investimenti pubblici, dello 0,5% all’anno. Inoltre, ogni eventuale aumento di entrata non potrà essere tradotto in maggiore spesa oltre questo vincolo, ma solo in un miglioramento dei saldi. Bisognerà lavorare molto di “spending review”, considerando anche il fatto che per diversi settori, come sanità e istruzione, il piano prevede inevitabili incrementi di spesa.
La parte del PSB dedicata alle riforme da compiere per avere l’estensione a sette anni del piano riguarda i settori della giustizia, dell’amministrazione fiscale, della gestione responsabile della spesa pubblica, del supporto alle imprese e della promozione della concorrenza e dell’efficienza della Pubblica Amministrazione. Il piano riconosce che in questi ambiti per tanti anni si sono riscontrate le principali barriere che hanno rallentato l’attuazione degli investimenti e la crescita economica e sociale. È implicita la necessità di dar corso a quanto avviato con il PNRR, ovviamente al momento considerato insufficiente, fissando obiettivi più concreti da realizzare a partire dal 2027, andando non solo a consolidare le misure intraprese, ma anche a introdurre nuovi strumenti per verificare i risultati.
Bisogna ammettere che il ministro Giorgetti, mettendo la firma su questo Piano, ha portato il suo partito e il governo su livelli di rigore inimmaginabili qualche anno fa e forse ancora non immaginati da chi ha letto superficialmente il documento del MEF. Il Piano è un documento europeo nello spirito e nella sostanza, considera le nuove regole di disciplina fiscale superiori alle precedenti ma ne indica i limiti ancora presenti, enfatizza il gioco di squadra con la Commissione e la collaborazione dell’Ufficio Parlamentare del Bilancio ed esprime perfino l’orgoglio del Paese per raggiungere un saldo primario positivo nel 2026 dopo tanti anni di disavanzo. Chi l’avrebbe mai detto…. a Pontida?
Ora entra in gioco il Parlamento, con le coalizioni sfilacciate e con la tipica miopia che porterà i più a discutere solo sui provvedimenti di spesa e le agevolazioni del 2025. Un grande ruolo sarà svolto dall’opposizione che dovrà rinunciare definitivamente al “partito della spesa pubblica” e ricordare che l’idea di un programma di medio periodo di convergenza del debito, concordato con l’Europa, fa parte della tradizione della sua parte più responsabile ed evoluta.
Pubblicato originariamente su SoloRiformisti.it.