Storia

Tutta colpa del Re? di Zeffiro Ciuffoletti

Sulle colpe dei Savoia in alcuni passaggi cruciali della storia italiana abbiamo chiesto al prof. Zeffiro Ciuffoletti di svolgere alcune riflessioni. Si comincia con la responsabilità dei Savoia per l’avvento del fascismo al potere nel 1922, quando il re Vittorio Emanuele III non firmò lo stato d’assedio. 

L’ultima parola sul rifiuto di sottoscrivere lo “stato d’assedio” proposto da Luigi Facta, capo di un “governo di transizione” incerto e precario nell’attesa del ritorno del vecchio Giolitti con una maggioranza parlamentare più solida, fu detta dal Re Vittorio Emanuele III. Detto così è troppo semplice e come al solito si scarica la colpa su uno solo. Il Re, però, non è un uomo solo al comando. La “Italietta” era pur sempre uno stato monarchico, ma liberale e parlamentare. In più era uscita da una “guerra terribile” ma vinta. Quindi il Re non fu il solo responsabile. Tanto più che la “marcia su Roma” non fu una marcetta ma nemmeno una “rivoluzione invincibile” con un capo, Mussolini, che veniva dalla sinistra socialista e aveva già con la guerra virato verso l’interventismo rivoluzionario ed il nazionalismo armato.

L’emergere dei Fasci di combattimento per “ordine e sicurezza”

Un nazionalismo armato che lo portò a fondare un “partito armato”, i Fasci di combattimento, sul modello del partito bolscevico che aveva vinto in Russia, il cui mito era stato abbracciato dal socialismo massimalista e dalla “frazione” comunista del P.S.I.

Il potere si conquista con la forza. Questo era il significato. E la forza andava esercitata contro i socialisti che predicavano di fare come in Russia: la rivoluzione violenta e la dittatura del proletariato.

Il consenso al fascismo, alla violenza del fascismo “per ristabilire l’ordine e la sicurezza” comportava l’annientamento dei “rivoluzionari rossi” che predicavano la rivoluzione, ma non erano in grado di farla perché l’Italia non era come la Russia e il socialismo italiano nelle sue organizzazioni di massa e persino in parlamento si atteggiava a forza responsabile nel rispetto delle regole del sistema in attesa della “rivoluzione” che pure rimaneva nell’orizzonte delle stesse componenti socialiste più consapevoli dei rischi che la reazione, anche militare, avrebbe comportato per la democrazia e per il movimento operaio.

L’incapacità della classe dirigente liberale

Nello scontro, che stava sconvolgendo il paese uscito dalla guerra, la classe dirigente liberale non seppe interpretare ciò che stava accadendo nel paese. Con governi deboli, che cadevano uno dopo l’altro, da un latto : Orlando (ottobre 1917 a giugno 1919), Nitti (giugno 1919 a maggio 1920, Nitti (maggio 1920 a giugno 1921) Giolitti (V) (giugno 1920 a giugno 1921), Bonomi (luglio 1921 a febbraio 1922), Facta (I) (febbraio 1921 luglio 1922), Facta II (agosto 1922 a ottobre 1922) e dall’altro scontri sociali spesso violenti. Con una violenza che richiamava violenza, come sempre, e che si estendeva dalle campagne, e dalle fabbriche alle città spingendo i ceti medi nelle braccia del fascismo.

I partiti di massa, il sistema proporzionale e lo “spezzatino” in  Parlamento 

Ceti medi che nelle elezioni del 16 novembre del 1919 avevano votato, almeno in parte, per il PSI ma di sicuro per il Partito Popolare, fondato da Luigi Sturzo nel gennaio del 191. Il partito di Sturzo aveva preso oltre il 20% dei voti, contro il 32% del Partito socialista: 100 deputati i popolari e 156 i socialisti. Partiti di massa esaltati dal sistema di voto proporzionale adottato insieme al suffragio universale (ristretto ai soli uomini).

Nelle elezioni del 15 maggio 1921, quando Giolitti tentò di contrastare la forza dei due partiti di massa con i “Blocchi nazionali”, i risultati furono tali da rendere impossibile formare governi solidi senza l’apporto dei socialisti o dei popolari, che rimasero con un piede dentro ed uno fuori, pur avendo confermato i suoi voti (20,3%) mentre il PSI a trazione massimalista scese al 24,5% dei voti ed il Partito Comunista d’Italia si fermò ad un magro 24,6%. I “blocchi nazionali” di Giolitti, con dentro i fascisti, si fermarono al 14%, i liberali al 10,5%, così i democrati al 10,5%, i demosociali al 4,7%, i repubblicani al 3,8%, il partito dei combattenti all’1,2%.. Uno spezzatino, tipico di un sistema parlamentare non in grado di esprimere un governo solido per affrontare la violenz asociale, ma anche le riforme da fare.

La classe dirigente, Giolitti in testa, pensava che il partito di Mussolini, cresciuto nei consensi, non poteva non essere coinvolto nel governo e “costituzionalizzato”. Sembrava l’unico sistema per spezzare la spirale della “guerra civile” e far tornare il Paese   nella legalità. La pensava così anche il Re, a cui il fascismo chiedeva apertamente di intervenire.

La disfatta dello stato liberale  

Con le elezioni, e si vide con quelle della primavera del 1921, il partito di Mussolini cresceva, ma non vinceva. Però era ormai un partito con centinaia di migliaia di iscritti e con “bande” guidate da ”ras” che incalzavano lo stesso Mussolini per agire con la forza. Lo si vide quando Italo Balbo concentrò le squadre fasciste su Bologna per ordinare la destituzione del prefetto Mori, reo di aver applicato la legge per imporre l’ordine.

Il governo rispose trasferendo i poteri dall’autorità civile a quella militare ma il comandante della Regione militare invece di fare il suo dovere decise di scendere a patti con i fascisti, assicurandoli che il prefetto sarebbe stato trasferito. Balbo, pluridecorato ufficiale degli alpini durante la guerra, aveva guidato i raid repressivi nelle campagne dell’Emilia con l’appoggio degli agrari. Laureatosi a Firenze in Scienze Politiche nel 1920 era un abile organizzatore ed un deciso uomo d’azione. Da giovane er repubblicano ed anche massone.

La situazione precipitò quando durante il XIX congresso del PSI (Roma, 1 ottobre 1922) si giunse alla scissione fra i massimalisti dominanti nel partito e la componente di Turati, Treves e Matteotti.  Troppo a lungo prigionieri dei “rivoluzionari” i turatiani, per amore dell’unità del partito, avevano piegato la testa. Ora fondarono un partito che contava una sessantina di deputati, contro trenta rimasti nel PSI.

Mussolini, che era un “tempista”, capì che era giunto il momento di rompere gli indugi, anche perché sapeva che Matteotti, giovane segretario del partito, era decisamente antifascista.

Purtroppo ancora una volta Turati che già nel 1919 aveva previsto inascoltato la reazione alle minacce rivoluzionarie, aveva ragione quando, nel 1930 ormai in esilio, ricordando quei fatti, scrisse che “la scissione del 1922 fu tardiva e quindi inutile”.

Pochi giorni dopo la scissione Mussolini diede avvio al piano segreto della “marcia” che fu ordinata per il 27 ottobre. A Napoli il 24 ottobre Mussolini al San Carlo disse fra le grida e gli evviva ”O ci daranno il governo o lo prenderemo calando a Roma”

Vilfredo Pareto, il più grande scienziato della politica del tempo, vedendo le manovre di Giolitti che aveva aperto al PSU di Matteotti e Turati, pensava che “il volpone” stava per preparare la disfatta del fascismo. La disfatta arrivò ma fu quella dello stato liberale.

Mussolini alla conquista del potere

Mussolini non solo rifiutò di entrare in un governo di larga coalizione, ma pose mano al “colpo di stato incruento” chiamato “marcia su Roma”.

Fra il 27 ed il 28 ottobre 1922 diverse colonne armate, piene di giovani ed ex militari, nonostante la pioggia battente, si diressero verso Roma. Erano circa 50 mila, ma aumentarono in corso d’opera. L’impresa fu organizzata dai “quadrumviri” designati da Mussolini: un sindacalista rivoluzionario, Michele Bianchi; e tre “ras” Cesare De Vecchi, Italo Balbo, Emilio De Bono. Le bande occuparono le stazioni ferroviarie e le strade che portavano a Roma. Istituirono posti di blocco ed estesero una rete di controllo militare nel territorio, impadronendosi delle centrali elettriche, telegrafiche e telefoniche.

Certo che in Italia il tragico ed il comico spesso si confondono ma spesso con il senno di poi. Può darsi che da un punto di vista strettamente militare la “marcia” o “marcetta” poteva essere fermata.

L’Italia non era in guerra come la Russia nel 1917, ma il problema era proprio l’esercito e i molti ufficiali che guardavano con favore a Mussolini.

Il re Vittorio Emanuele III indugiò, ma poi decise di non sottoscriver e lo stato d’assedio proposto da Facta, proprio perché gli alti comandi non assicurarono la tenuta dell’esercito.

Contro la proposta di governo di ampia coalizione, Mussolini impose il suo gioco e il 29 ottobre a Milano ricevette il telegramma con l’incarico di formare il nuovo governo. Salvemini, che si rese conto degli errori del massimalismo, parlò di “colpo di stato dissimulato sotto un velo di pseudo-rivoluzione civile”. Fu allora che si concesse alle camicie nere di entrare a Roma.

Il 31 ottobre sfilarono sotto il Quirinale in omaggio al re, che si affacciò a salutare i marciatori, fra i quali figuravano molti soldati e reduci, ufficiali, generali di alto rango e medaglie al valore. Sul balcone, accanto al re, c’erano il generale Armando Diaz e il Grande Ammiraglio Paolo Thaon De Revel, che entrarono nella compagine del governo di Mussolini. “Mai rivoluzione si era conclusa nella più partecipata ufficialità con il sostegno più o meno espresso dei più importanti centri di potere del paese, dalla Confindustria alla Chiesa, dall’alta burocrazia alla magistratura”.

Il 16 novembre, quando Mussolini si presentò alla Camera per chiedere i pieni poteri, minacciando di fare del Parlamento “un bivacco di manipoli” e promettendo nello stesso tempo ordine e stabilità, ottenne la fiducia con 306 voti contro 116” . A favore votarono anche liberali e popolari (cfr. G. Mammarella- Z. Ciuffoletti, Il declino. Le origini storiche della crisi italiana, Mondadori, Milano, 1996 p. 90).

Resta il fatto che anche nelle tragedie e per colpa delle tragedie, l’Italia si regge sul trasformismo. Il re, Vittorio Emanuele III stava al gioco con le carte di cui disponeva e con il coraggio che aveva.

Pubblicato originariamente su “SoloRiformisti”.