Economia

I “Campi Flegrei” della finanza pubblica italiana di Alessandro Petretto

L’articolo del “Corriere della sera” di Federico Fubini di commento alla presentazione dei numeri della NADEF (29 settembre) si conclude con una sconvolgente dichiarazione virgolettata di una voce interna al Ministero dell’economia “L’intero sistema politico non ha idea che siamo seduti su un vulcano, non capisce che è un vulcano. Quando glielo diciamo non ci credono”. I primi sinistri rumori di una possibile eruzione sono testimoniati dall’andamento dello spread rappresentato in questa tabella.

Non solo il livello si avvicina alla soglia di pericolo di 200 ma è anche superiore al livello della Grecia, da sempre considerata l’anello debole dei paesi membri della Unione monetaria. La preoccupazione si dilata in considerazione del fatto che l’ammontare di titoli nuovi da emettere questo e nel prossimo anno per rifinanziare quelli in scadenza è la più alta da molti anni.

 La formula che indica il livello di spread (differenza tra rendimento di un titolo decennale risk free emesso da un paese con tre AAA come la Germania e un analogo titolo emesso dall’Italia) deriva da una così detta “equazione di arbitraggio” che ha come incognita il premio che deve essere riconosciuto agli operatori finanziari perché sottoscrivano titoli italiani. La formula ci dice che questo premio aumenta all’aumentare del tasso di interesse di riferimento indicato dalla Banca centrale europea (e questo ora sta accadendo) e all’aumentare del “rischio paese” (probabilità di default dei titoli). In una fase di tassi di interesse tenuti elevati dalla BCE, quindi, lo spread aumenta di più nei paesi in cui questo è superiore alla media. Quanto al rischio paese, misurato anche dalle Agenzie internazionali di rating, questo dipende dalla credibilità nelle politiche di stabilità finanziaria e di riduzione del rapporto debito/PIL del paese.

Dopo gli obbiettivi di rientro (% di riduzione annua del rapporto) fissati dal governo Draghi con un profilo triennale, l’attuale governo non ha mai dichiarato quale è il suo profilo di rientro, preferendo di determinarlo all’impronta fidando nella sorte benigna. Fubini nell’articolo citato dimostra come anche dall’attuale NADEF emerge una stabilità del rapporto (neppure una riduzione contenuta) almeno fino al 2025.

La mancanza di credibilità è aggravata anche dal fatto che le nuove regole che sostituiranno il Patto di Stabilità e Crescita si basano proprio su proiezioni di rientro annue concordate con i paesi ad alto debito. In altre parole, non ci sarà più la regola fissa di rientro (il 20% annuo della differenza tra il rapporto effettivo e il 60% di Maastricht) ma un piano di cinque anni  (prorogabile a 7 anni, con adeguate riforme strutturali) specifico paese per paese. Le nuove regole richiederanno anche un profilo di crescita della spesa pubblica connesso allo stesso piano di rientro dal debito. Al riguardo nella NADEF c’è una risibile indicazione di spending review che non potrà che irritare la Commissione europea e allarmare ulteriormente i mercati.

L’Italia contesta questa linea interpretativa delle nuove regole, temendo di avere l’etichetta di paese pecora nera, aggravando così la sfiducia; ma ovviamente non potrebbe sopportare il mantenimento delle ben più rigide vecchie regole.

La pantomima sulla ratifica del MES poi chiude il cerchio. Con il MES operativo, tutti gli spread necessariamente diminuirebbero perché la rete di protezione del Fondo svolgerebbe un ruolo assicurativo per gli operatori finanziari, contenendo la loro avversione al rischio. Da qui la irrazionalità dell’incomprensibile, masochistica non ratifica del Trattato da parte dell’Italia.