Eclissi della politica. Eclissi delle finalità
La governance UE ha lavorato accuratamente sui mezzi e sugli strumenti, ha ignorato però le finalità, e cioè la scelta fatta sulla base della discrezionalità politica. Ma la vera politica può realizzarsi solo se si fuoriesce dalla questione dei mezzi e si tocca la questione dei fini. “Quando il problema della scelta consiste nel decidere tra mezzi alternativi per raggiungere un determinato fine […] il ricorso alla ragione tecnica è di per sé sufficiente. Ma quando la domanda diviene: Che cosa è bene che voglia, vale a dire quando so tratta di scegliere tra fini diversi, la necessità di disporre di un criterio per interrompere la catena delle domande a un certo punto diviene irrinunciabile, “ (Stefano Zamagni, Prefazione a La logica del bene comune. Coscienza, memoria, responsabilità, dialogo, Gabrielli, Verona, 2021, p. XII).
Ma ora a questa eclissi delle finalità è urgente porre rimedio. Anche perché senza una politicizzazione costruita sulle finalità dell’ UE non si potrà costruire neppure la pace (quella vera). Diritto, tecnologia, economia ed algoritmi potranno solo suggerire la scelta dei mezzi più adeguati – si suppone – per vincere un conflitto, non a costruire la pace.
Non è così se per pace intendiamo non la fine del conflitto armato e delle ostilità latenti (guerra fredda), una pace fondata principalmente sulle capacità di deterrenza e quindi sulla potenza, soprattutto militare, ma intendiamo invece quella “concordia ordinata” che è la vera “pace degli uomini”, per riprendere la classica definizione agostiniana. La pace duratura è quella che, fondandosi su una convergenza di volontà e su un coordinamento dei poteri, consente oltre che la coesistenza, la convivenza tra diversi, la tutela dei diritti ed il libero sviluppo umano (non la pura “crescita” misurata dal PIL!).
Le riforme e i cambiamenti davvero decisivi
Questa necessità ed urgenza di cambiamento non trova che un riflesso, minimizzato, ambiguo o, più esattamente, rovesciato nelle istituzioni europee. Il problema che si pone oggi ai vertici europei è quello della ridefinizione delle rules o regole della governance, sospese durante il periodo della pandemia. Si sostiene che si tratta di flessibilizzare le vecchie regole della austerity che non avevano aiutato ad uscire dalla crisi finanziaria e che non potevano più essere fatte valere nel periodo di pandemia.
Ma non si estende o si prolunga la logica del Next generation EU, del “debito buono” ricordato da Draghi, degli eurobond né si parla di un possibile debito europeo comune, un debito sensato solo se vi è una finalità comune (come nel Next generation EU).
Non si sta aprendo alcun dibattito sul tema né tanto meno sulle modalità di costruire una Europa “politica” in cui investimenti comuni possano essere assunti accettando responsabilmente una discrezionalità politica comune.
Oggi la discussione pubblica dai vertici europei investe soprattutto la ridefinizione del PSC (Patto di stabilità e crescita), cioè la riforma delle regole fiscali e la ridefinizione degli strumenti finanziari ed economici essenziali per realizzarlo. Ma quale è la nuova filosofia del Patto di stabilità e crescita?
Bisogna premettere che il Patto di stabilità e crescita è un accordo di diritto internazionale, approvato nel luglio 1997, coi due regolamenti 1466/97 e 1467/97, poi integrato nel 2011, sia attraverso la modifica del diritto derivato il cosiddetto Six-pack sia attraverso un trattato di diritto internazionale noto come Fiscal Compact. È il patto che vincola al rispetto dei parametri di virtuosità della finanza pubblica stabiliti a Maastricht in ben altra fase storica (tetti del 3% nel rapporto deficit PIL e 60% nel rappporto debito pubblico/PIL).
Il Patto mirava, come noto, a mettere in opera un meccanismo di enforcement per realizzare un rientro progressivo dal debito. Il cosiddetto Six-Pack, il “pacchetto” di cinque regolamenti e una direttiva varati nel novembre 2011, prevede sanzioni applicabili solo agli Stati dell’ Eurozona, le cosiddette procedure per squilibri macroeconomici (MIP Macroecoomic Imbalance Procedure), ed introduce un caso particolare di “procedure di infrazione” che contempla la possibilità di sanzionare con depositi infruttiferi e/o ammende gli Stati violatori del vincolo di bilancio. Andando ben oltre le azioni non vincolanti, come la “sorveglianza”, gli “avvertimenti”, le “raccomandazioni” di Consiglio e Commissione.
Si tratta di un meccanismo che sterilizza le politiche industriali, che possono essere sostituite solo da una politica della concorrenza in perfetto stile neoliberista. Tanto più che la “regola del ventesimo” introdotta nel 2011, vincola gli Stati con rapporto debito/PIL superiore al 60% a ridurre di un ventesimo all’ anno il divario dell’indicatore, con effetti che per i paesi con debito elevato avrebbero avuto effetto di “cure da cavallo”, con avanzi primari insostenibili per le economie più deboli. Un meccanismo indubbiamente, di effetti molto dubbi e prudentemente mai applicato all ‘ Italia – anche se rientrante perfettamente nella fattispecie – fino alla sospensione del PSC del 2020.
In effetti, è quanto mai arduo disegnare un sistema di regole fiscali “intelligenti” e flessibili, applicabili in modo uniforme ma senza azzerare la discrezionalità economica dei governi nazionali e la loro possibilità di mettere in atto politiche economiche capaci di una reazione anticiclica. Oggi si ammette così, di fronte alla riforma del PSC, la necessità di seguire dei percorsi di risanamento del debito realistici, che non uccidano il paziente in cura.
Competitività o solidarietà per la superare la crisi?
In realtà non è solo quello del “realismo” del risanamento il vero problema. Il ricorso a meccanismi ex post per il risanamento degli squilibri di bilancio presentato come unica strada per una gestione corretta della finanza pubblica non era e non è l’unica strada. Ve ne erano e ve ne sono altre. Erroneamente questa soluzione emergenziale è sempre stata e continua ad essere la sola soluzione considerata, escludendo ad esempio il ricorso a soluzioni sistemiche per evitare o contrastare ex ante gli squilibri macroeconomici e finanziari.
ln effetti, mentre il sistema sanzionatorio diventa difficilmente evitabile in un meccanismo di “solidarietà senza reciprocità” – o di trasferimento del rischio dai paesi deboli a quelli forti- ma come notavano, negli anni stessi dell’avvio del meccanismo, due studiose di un think tank europeista “Notre Europe”, sarebbero state pur sempre necessarie disciplina del debito e di responsabilità fiscale, ma un sistema di eurobond avrebbe consentito una soluzione diversa. Ed anche se “si è spesso sostenuto che un sistema di emissione comune di bond avrebbe eliminato l’effetto disciplinante dei mercati finanziari […] questa situazione può esser compensata in un sistema di eurobond in cui ciascun Stato dell’ Eurozona paghi un diritto diverso a seconda della rispettiva affidabilità creditizia” oppure “debba pagare una penalizzazione per rifinanziare il proprio debito coi bond comuni” (S. Fernandes E. Rubio, Solidarity within the Eurozone, How much? What for? For how long? Notre Europe, 2011, Policy Paper n. 51, p. 45).
Certo non si tratta di sostenere l’idea di un debito pubblico “buono” cioè di un debito pubblico comune finalizzato a perseguire obiettivi comuni. Si tratta però di salvaguardare quello spazio agli investimenti pubblici interni ed alle politiche economiche che, negli Stati a debito pubblico elevato, come l’ Italia, il meccanismo del recupero del debito e degli avanzi primari successivi- austerity- rischia di far saltare a tempo indeterminato.
E qui sarebbe il vero cambiamento. L’ Eurozona non è mai un tutto organico, ma un insieme di stati membri in competizione tra loro e col resto del mondo, per cui gli squilibri economici e finanziari vanno sempe ricondotti a carenze interne, corruzione, inefficienze, gestione allegra dell’economia, mai alle vincolanti o carenti regole del sistema. Resta difficile perseguire la via del superamento della modifica positiva del rapporti debito/PIL agendo solo sul denominatore ( cioè sulla massa del debito) e facendo scendere l’incidenza del debito.
Per quanto concerne la modifica del PSC ora si sostiene che il punto essenziale sarà la abolizione della “regola del ventesimo”, sostituita da una contrattazione tra Commissione e singolo governo. In effetti fino alla sospensione del PSC del 2020, i governi italiani hanno sempre negoziato con la Commissione deroghe temporanee al fine di procrastinare l’applicazione della “regola del ventesimo”. Cosa dovrebbe succedere ora?
“La filosofia di fondo della nuova fisionomia del PSC è, infatti, proprio quella dello scambio tra maggior indi-vidualizzazione e autodeterminazione nel delineare i piani di rientro dal debito pubblico (c.d. “ownership”) e maggior rigore nell’ enforcement eteronomo da parte delle istituzioni europee, così da rendere quasi-automatico l’innesco del procedimento sanzionatorio. Nella fase della vigilanza e sanzione torna la tripartizione degli Stati membri: per quelli ad alto debito, la deviazione dal piano di aggiustamento, ossia dalle soglie annuali di spesa primaria “tollerabile”, causerà l’automatica apertura della procedura per deficit eccessivo” ( A. Guazzarotti p. 17).
Questa “nuova filosofia” finisce purtroppo per essere quella di una Europa competitiva, nazio-centrica e “direttoriale” – a trazione dei poteri finanziari – in cui ancora una volta si combattono solo ex post gli squilibri finanziari e macroeconomici provenienti dai debiti pubblici degli Stati più deboli finanziariamente ( anche se non economicamente) e si trascura di rivedere gli squilibri provenienti dal sistema nel suo complesso .
La flessibilità all’interno delle regole consentirà sì una negoziazione tra governo e Commissione, ma in caso di mancato accordo scatterà il meccanismo delle regole tecniche e dei parametri prestabiliti e fissati dalla analisi della Commissione sulla misura dello scenario di sostenibilità del debito da essa formulato.
E non risulta che gli investimenti, neppure quelli legati al PNRR, possano essere scorporati dal computo del deficit e del debito pubblico, col rischio che l’alto livello del debito innesti un circolo vizioso infinito debito/recessione.
L’ unione monetaria e la strada per la pace
Non è per realizzare una situazione del genere che si era pensata l’ unione europea e neppure l’ unione monetaria, la cui idea non era nata a Maastricht. L’idea che stava alla base anche dell’ unione monetaria non era stata la competitività, ma l’equilibrio tra le economie nazionali ed il ricorso ai paesi in surplus commerciale per compensare i problemi che nascevano dai paesi in recessione e sottoposti a misure di “austerità”.
Bisognerebbe ricordare allora che “ciò accadde, effettivamente, agli albori dell’integrazione europea, grazie all’Unione europea dei pagamenti, che funzionò come una sorta di moneta comune virtuale, fornendo ai sei Stati fondatori della CEE la possibilità di commerciare tra loro e col resto del mondo per tutto il periodo in cui le loro monete non avessero riacquistato la convertibilità. Il sistema funzionava sul modello della “international clearing union” ideata da Keynes, cioè come una camera di compensazione capace di impedire la tesaurizzazione di surplus commerciali, con funzione di coordinamento delle monete nazionali e non di sostituzione di queste” ( A. Guazzarotti, cit., p. 13).
Qui sono le radici moderne e lo spirito vero della costruzione europea, che dovremmo recuperare, sbarazzandoci di ciò che è anti-Europa, anche se si presenta come una Europa del futuro e con l’ Europa può essere scambiata.
È l’ anti- Europa a-politica, priva di una vera sovranità e soprattutto di una sovranità responsabile, o accountable, che chiede sacrifici per salvare il futuro, senza riguardo al presente, che affida le sue scelte essenziali a algoritmi e calcoli, che costruisce una “società dell’astrazione, non una “società della cura” (“We care” proposto come motto per l’ UE nel 2021, oggi forse già dimenticato), che focalizza la sua attenzione sui mezzi e non sulle finalità, che non è in grado o non sa dare una organizzazione comune alla riorganizzazione delle fonti energetiche in vista della transizione ecologica, che pone in competizione tra loro i sistemi fiscali e legislativi degli Stati, invece delle imprese, che sostiene una competitività generalizzata che rassomiglia sempre di più ad una guerra di tutti contro tutti, e che finisce per configurare la guerra o il conflitto come una dimensione permanente delle relazioni sociali ed umane, da cui difendersi con ogni mezzo, inclusa la tecnologia militare, senza alcun bisogno di individuare dei fini che diano un senso e un limite all’uso dei mezzi (per non pensare: solo più armi possono metter fine alla guerra !). Credo ci sia anche nelle istituzioni europee chi non condivide tutto questo, chi vuol tornare davvero a “pensare europeo”, chi vuole tornare alla prospettiva di Schuman.
Pubblicato originariamente su politicainsieme.com.