Europa

A 73 anni dalla dichiarazione Schuman. Un’Europa da re-inventare per costruire la pace (parte 1/2) di Umberto Baldocchi

La storia “con la S maiuscola” non è finita. E non perché siamo tornati alle tragedie del passato, ed alla tragedia suprema, che è, per noi europei, la guerra nel cuore d’ Europa. Ma semplicemente perché si va riaffermando il principio di realtà, che  non è un principio configgente col principio della speranza, ma è un suo prerequisito essenziale per ricostruire la speranza.

Ora è chiaro. La pandemia e la guerra di Ucraina, riportandoci al principio di realtà,  hanno costituito una cesura radicale nella vicenda dell’ UE, così radicale che abbiamo difficoltà ancora a rendercene conto. La discussione, irenica ed astratta,  sul “futuro dell’Europa”, indetta con solennità dalle istituzioni europee nel 2021 sembra ormai appartenere ad un passato lontanissimo e  disconnesso dall’oggi.  È  oggi convinzione diffusa che l’ UE debba funzionare, per molti aspetti,  in modo molto diverso dal passato, anche se ilo peso delle emergenze che incombono (la guerra soprattutto) ci impedisce di concepire i cambiamenti veri, quelli che non siano deroghe emergenziali o, nel caso migliore, accordi di diritto internazionale tra Stati. Si esita a mettere in gioco il diritto euro-unitario e soprattutto le regole della finanza pubblica e i vincoli di bilancio, sospese in pandemia.

Ciò che valeva per l’ “emergenza” pandemia, non sembra valere  evidentemente per l’ “emergenza” guerra. Anche se l’una, esattamente come l’altra, ha fatto schizzare verso l’ alto il debito pubblico italiano.

Ordinamenti senza sovranità

Ma cosa è stato messo in discussione da guerra e pandemia? Soprattutto dagli anni novanta del XX secolo in poi si era pensato che economia (o forse anche solo finanza) e diritto bastassero da soli a costruire l’ Europa, secondo il modello di una integration through law ( integrazione attraverso il diritto), che sembrava aver funzionato efficacemente soprattutto approfondendo l’integrazione.

L’Europa era divenuta un’isola felice, un’area di pace basata sul regno del diritto! Eppure già la BREXIT votata nel giugno 2016 aveva segnalato una crepa, non piccola, entro questa dimensione pacifica. Quanto meno si arrestava e persino si invertiva la tendenza all’espansione dell’ area “europea” avviatasi nel 1950. Certo, in questo caso, contava la specificità della tradizione costituzionale anglosassone, molto diversa da quella europea continentale, ma evidentemente  la forza di connessione del diritto non era più in grado di tenere entro il perimetro europeo la divergente realtà britannica.

Comunque “per molti anni l’ UE è stata considerata il luogo della ragione e della prevalenza delle regole sulla discrezionalità  politica: integration through law  è stato il motto ideale di tale visione irenica” ( Andrea Guazzarotti, La riforma delle regole fiscali in Europa: nessun hamiltonian moment, in Rivista AIC, n. 1/2023, 25/01/2023, p. 25) . Il diritto era divenuto, al tempo stesso,  oggetto e mezzo di integrazione.

Si potrebbe quasi dire che, soprattutto nell’ultimo trentennio, da Maastricht in poi, l’ UE abbia cercato di realizzare il modello di un “ordinamento senza sovranità”, tenuto in piedi essenzialmente da diritto ed economia. Un modello in astratto affascinante, anche se difficilmente realizzabile. Un modello peraltro con un precedente grandioso, anche se fallito storicamente.  Si licet parvis componere magna, c’è, è il precedente della antica romanità, in cui si era manifestata l’idea di una razionalità senza dominio e senza confini (!),  quando il diritto positivo si era fuso col paradigma gius-naturalistico che gli aveva conferito una universalità astratta. Come si è scritto “l’idea prendeva il posto della storia, si affacciava l’ipotesi di costruire un ordinamento senza sovrano e senza un preciso riferimento territoriale, giustificato solo da una filosofia unanimemente condivisa, perché inscritta nella ragione di tutti gli uomini” (A. Schiavone, Jus- L’invenzione del diritto in Occidente, PBE, Torino, 2017, p. 287).

Il nuovo linguaggio delle istituzioni europee: dal diritto al potere

La pandemia e la guerra di Ucraina hanno cambiato tutto il contesto, radicalmente. Come testimoniano, senza ombra di dubbio, i mutamenti piccoli, ma significativi, nel linguaggio degli organismi e delle istituzioni europee. Come si è detto, l’uso del linguaggio esprime il mondo in cui viviamo e tende nel contempo a plasmarlo. Non abbiamo più a che fare soltanto con una “macchina giuridica” che agisce, in prevalenza, attraverso gli strumenti del diritto, perseguendo una sorta di “via giudiziaria” alla costruzione europea. E neppure si tratta più di costruire il mercato unico, di introdurre regole concorrenziali, di affermare il diritto alla mobilità delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone (queste in misura un po’ più ridotta), cioè di realizzare la via economica alla costruzione europea. L’ UE non è più la “guardiana dei Trattati” ma, si concepisce, o inizia a concepirsi, come una “potenza” che usa il linguaggio del “potere”. Nel contesto dei cambiamenti epocali mondiali, già evidenti nel secondo ventennio del XXI secolo (ascesa della Cina, pretese neo-imperiali russe, spostamento della politica USA verso il pacifico, neo autoritarismi dilaganti, instabilità nord-africana).

I cambiamenti del linguaggio sono, si è detto, la spia di questo cambiamento incipiente. “ La nuova Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel 2019, ha definito la nuova Commissione una ‘commissione geopolitica’ e il significato della novità linguistica è stato chiarito dall’invito dell’Alto rappresentante Joseph Borrell che ha affermato che l’Europa deve imparare a usare il “linguaggio del potere””(  Giovanni Pitruzzella, Identità, linguaggio e integrazione europea , in Rivista AIC, n. 1/2023, 13/03/2023, p. 4). E questo è radicalmente nuovo.

“ La geopolitica è innanzitutto una politica di potenza; la puissance come la chiamano i francesi. Invece di affidarsi al diritto o al mercato, gli attori usano il potere per raggiungere i loro obiettivi. Tutto ciò si esprime in forme, mezzi e modi differenti. Tutto dipende dalla situazione. Il potere militare e la minaccia di entrare in conflitto fanno parte dell’arsenale. Un Paese che possiede altri fattori di cui altri hanno bisogno (risorse, credito, tecnologia, porti, vaccini) ha diversi mezzi di pressione, così come uno che può impedire l’accesso a questi mezzi; oggi poi la potenza si esercita soprattutto influenzando o bloccando le reti – infrastrutturali, finanziarie, commerciali, tecnologiche, ecc. – che hanno dato vita a un mondo fortemente interdipen-dente” ( G. Pitruzzella, Identità, linguaggio e integrazione europea, cit., p. 5).

La guerra come “evento naturale”

Non è difficile allora comprendere perché  pandemia e guerra abbiano accelerato e portato alla luce queste tendenze nuove, ma già delineatesi negli anni precedenti. La questione della disponibilità immediata o comunque rapida dei vaccini sul territorio europeo ha posto il problema di una allocazione di risorse che non può essere veicolata dai meccanismi di mercato (che peraltro avevano spinto la produzione dei vaccini via dall’ Europa)  o dai meccanismi del diritto. La questione della guerra di aggressione russa all’ Ucraina ha posto, con maggior forza,  la stessa questione attraverso il meccanismo della “guerra ibrida”,  una guerra peculiare in cui diventano armi essenziali, non solo quelle in senso proprio, ma anche il credito, la tecnologia, i beni alimentari, il commercio, la finanza, le tecnologie mediatiche, tutto ciò che normalmente era parte dell’economia o della tecnica  ed ora viene invece impiegato con una finalità diversa da quella che esse avevano in condizioni di pace.

Questa pare una guerra con cui si deve convivere a lungo,  una guerra probabilmente “guidata” dagli algoritmi, in cui i morti quotidiani si vedono raramente e “solo” i due paesi in conflitto subiscono le uccisioni e le perdite umane dirette. Una guerra “industriale”, non certo la prima della storia, ma stavolta dotata di un riconoscimento ufficiale: in effetti il commissario  europeo Thierry Breton  ha candidamente dichiarato che “ Il Recovery Fund è stato specificamente costruito per tre principali azioni: la transizione verde, la transizione digitale e la resilienza. Intervenire puntualmente per sostenere progetti industriali che vanno verso la resilienza,compresa la difesa, fa parte di questo terzo pilastro” ( “Il Manifesto”, online , 5 maggio 2023).

La guerra, anzi la “difesa”, che non presuppone solo l’esercito, diviene un investimento,  si muta in una  realtà quotidiana permanente, accettata come inevitabile. Ci potremmo trovare entro una terza guerra mondiale ubiquitaria e proteiforme, più che “a pezzetti”, concentrata, per il conflitto armato, in singoli Stati, ma combattuta quasi dovunque, attraverso le misure economico-tecnologico-finanziarie  apparentemente non omicide, ma “solo” apportatrici  di separazione umana, impoverimento generalizzato, materiale e morale. Dall’ecologia ambientale alla distruzione materiale delle persone. “La guerra – potremmo dire – è evento naturale e permanente da cui è necessario difendersi” . In effetti questa conflittualità universale sembra manifestarsi sempre di più, non solo in scontri militari,  ma  anche  in distruzione di infrastrutture, sabotaggi  di oleodotti, ricatti energetici, ricatti alimentari, uso illimitato dei mercati,  minacce mediatiche (guerra degli hacker). Tutto può essere guerra.

Una difesa europea?

Cosa potrebbe allora significare “Difesa europea”, in un contesto in cui già esiste la NATO, ma non una forza militare comune dei paesi europei? Si potrebbe anche pensare ad una industria bellica e tecnologica senza bisogno addirittura di una forza comune (non esistono i contractors?) e tanto meno di una politica estera comune, anche se evidentemente sarebbe per l’ Europa una assurdità, o una rinuncia alla propria indipendenza strategica.

Qualcuno potrà anche citare, strumentalmente, come  precedente europeo il caso della CED ( Comunità Europea di Difesa) una coraggiosa proposta addirittura dell’ottobre del 1950, all’inizio della guerra fredda, avanzata dal ministro francese René Pleven, col  cosiddetto Plan Pleven ( in realtà opera soprattutto di Jean Monnet), poi naufragata ingloriosamente nell’agosto 1954, ad opera di una decisione dello stesso Parlamento francese. Un ritorno alla CED? Chi fa questo riferimento, prima di individuarne le analogie, dovrebbe anche sapere che quel progetto si configurava allora come un momento capitale di una (pur irrealistica allora) costruzione europea che presupponeva la nascita di una Comunità Politica, capace di esercitare una autorità politica col potere di decidere sulla operatività dell’esercito europeo. E quel progetto (certo una “fuga in avanti”) prevedeva inizialmente addirittura un Ministro europeo della difesa responsabile davanti al Parlamento della CECA e, va aggiunto, su proposta italiana, introduceva, con l’art. 38 del Trattato CED, addirittura la proposta di un’Assemblea comune per elaborare una struttura politica federale, per dare vita ad una Comunità Politica Europea (CPE), Assemblea che avrebbe in effetti elaborato un proprio progetto compiuto, che si fondava su un parallelismo stretto tra unione economica ed unione politica. Le istituzioni della CPE avrebbero dovuto assorbire quelle della CECA e della CED.

Un potere europeo senza sovranità?

Guerra e pandemia hanno perciò fatto emergere la questione  del potere comune europeo e della titolarità effettiva di quelle decisioni che non possono esser presa in base a diritto o a ragioni di mercato, ma solo in base alla tanto colpevolizzata “politica”. Hanno fatto emergere la questione che ci si era illusi di aver superato e rimosso- la questione, anzi la grande illusione del superamento della sovranità, della titolarità, della modalità e dell’efficacia della decisione collettiva. Un problema che si è continuamente rimosso e rimandato, e persino demonizzato, attraverso l’uso giornalistico e pseudo-storiografico, della categoria “sovranismo” che doveva screditare quelli che in effetti erano neo-nazionalismi, ma che rischia invece di produrre l’effetto esattamente contrario.

Il principio di attribuzione che è alla base dei trattati europei pareva rendere superflua la categoria della sovranità collettiva europea, salvo alimentare sempre la critica ricorrente e mai superata della effettiva incapacità/impotenza  dell’ UE a decidere a maggioranza, e non all’unanimità, come in un parlamento di antico regime o nella Dieta nobiliare della Polonia settecentesca. Ci stiamo finalmente accorgendo di questa anomalia che ha alimentato la grande illusione di una parte dell’europeismo, una anomalia  che però  era già chiara da tempo  agli osservatori più attenti,

Lo avevano ben capito ad esempio due economisti francesi già qualche anno fa.

“Il sistema politico europeo si caratterizza per la sconcertante incertezza che concerne la localizzazione esplicita del principio di sovranità. La figura del sovrano, essenziale per l’autodeterminazione delle nostre comunità politiche, sembra sfuggire al campo visivo de cittadini, o piuttosto dissolversi entro il magma dei regolamenti. Chi è il vero sovrano in Europa? È ancora il popolo, è la Costituzione o piuttosto il mercato?”( M. Aglietta, N. Leron, La double democratie. Une Europe politique pour la croissance, Seuil, Paris, 2017, p.83)

Si era pensato semplicisticamente che le novità provenienti dalla globalizzazione e dai mercati globali avessero a tal punto modificato la realtà della politica da far venir meno la necessità di una “sovranità” strutturale, essendo sufficiente – ed inevitabile – una pura “sovranità funzionale”.  Anzi come si è detto “ l’impronta funzionalista delle origini del processo di integrazione ha consentito di non  sciogliere mai chiaramente il nodo della sovranità, lasciando l’ UE vivere due vite diverse, sulla carta e nella concreta prassi politica. Stando alla lettera dei trattati essa è ente a competenze enumerate […] Nella concreta prassi essa invece agisce e spesso “parla”, ancor più dopo la crisi pandemica e quella ucraina [….] a nome degli Stati, come ente politico  a competenze tendenzialmente generali”( Roberta Calvano, Legalità UE e Stato di diritto- una questione per tempi difficili , in. Rivista AIC, n. 4/2022,  07/12/2022 p. 8).

Pareva sostenere questa lettura funzionalistica della sovranità addirittura forse lo stesso Mario Draghi che, nel suo intervento accademico, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in giurisprudenza all’ Università  di Bologna il 22 febbraio 2019  aveva affermato:

“ La vera sovranità si riflette non nel potere di fare le leggi come peraltro vuole la definizione giuridica di essa, ma nel miglior controllo degli eventi, in maniera di rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini: la pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo, secondo la definizione che John Locke ne dette nel 1690. La possibilità di agire in maniera indipendente non garantisce questo controllo:  in altre parole, l’indipendenza non garantisce la sovranità” ( Mario Draghi, Prolusione tenuta in sede di conferimento della laurea ad honorem, così riportata in: Il Foglio, 25 febbraio 2019, ed. online, p. 3).

La sovranità in altri termini non ha più né un nome né un volto e neppure una collocazione spaziale. Non è una capacità intrinseca di un potere strutturato, ma una funzione in grado di produrre un risultato ( “il miglior controllo degli eventi”). Vera sovranità potrebbe essere quella di una infrastruttura globale di tipo economico o tecnologico che non è collocabile nello spazio, non è vincolata né al dato spaziale, né all’ accountability dei poteri costituiti. Sarebbe una sorta di superiore potere “costituente”che garantisce la osservazione di un ordine globale, che è l’unico ordine che pare possibile. Un potere dotato di capacità ordinante, ma sprovvisto di quei vincoli e limiti interni che limitavano il potere persino nella sovranità assoluta descritta da Jean Bodin.

Una concezione che può ben interpretare il caso di una crisi  come quella del 2008/2011, ma che evidentemente non regge di fronte ai fenomeni della pandemia e della guerra, entro le quali la sovranità  reclama luoghi e spazi di azione pubblica chiari e definiti.

Pretendere che un corpo politico viva e funzioni senza una sovranità concretamente localizzabile, senza una volontà ed un impulso vitale, riconducibile ad una volontà  umana collttiva, è credere che possa esistere un corpo vivente senza anima, una sorta di corpo-robot che agisce soltanto in base a reazioni meccanicamente  e preliminarmente prestabilite, a input di algoritmi.

Quale sovranità per la pace?

Una concezione di sovranità,  quella nata a Westphalia è entrata in crisi. Ma la sovranità è per questo superata solo perché gli Stati nazionali da soli in Europa non sono più in grado di realizzare grazie ad essa la propria indipendenza?

In realtà la sovranità nasce laddove esiste una volontà da tradurre in azioni e la volontà umana, esiste laddove c’è un fine da individuare e da tradurre in realtà. La sovranità nata a Westphalia, figli di una concezione per cui l’umana vicinanza era sempre causa di rivalità e conflitto, laddove mancasse un potere capace di intimidire e dominare le persone,  era nata essenzialmente per garantire agli Stati la capacità di difendersi con le armi e con la guerra e per realizzare una “pace” intesa come la sicurezza, necessaria per garantire il diritto alla vita e allo svolgimento delle attività ad essa necessarie.

Lo Stato, dunque, per esistere, doveva garantire questa finalità suprema e prioritaria.  L’ Unione Europea che noi conosciamo aveva certo questa finalità, benché essa non fosse stata la sua finalità primaria, soprattutto, da Maastricht in poi . Basta leggere il Trattato Europeo di Lisbona che, al punto 3/1 afferma che  “l’ UE si prefigge di promuovere la pace,  i suoi valori e il benessere dei suoi popoli”, cioè afferma la rilevanza del perseguimento della pace, ma lo fa in un’ottica decisamente minimalistica e insufficiente, quasi ponendola sullo stesso piano del “benessere” dei popoli. Promuovere la pace significa favorire la pace, consolidare una situazione di assenza di guerra. Ma questa azione, di per sé, non include anche il ben più impegnativo obiettivo di cui aveva parlato Schuman il 9 maggio  1950 nel Discorso della Sala dell’ Orologio, quello di “salvaguardare” la pace, cioè di “assicurare” le condizioni della sua esistenza. Tanto meno include quello di “servire la pace”(!), cioè di considerare addirittura la pace come una finalità suprema, cui subordinare tutto il resto, come aveva dichiarato Schuman. La pace non era più un valore tra gli altri. La riorganizzazione dell’economia – attraverso la CECA- doveva servire prima di tutto a costruire la pace.

Pandemia e guerra hanno mostrato che, per governare l’ UE, non è più sufficiente l’unione fondata solo sul diritto. La pandemia ha mostrato che una politica sanitaria comune- pur prevista dai trattati- ha bisogno di un indirizzo politico preciso che formuli le finalità comuni che devono conformare la organizzazione sociale. La guerra ha mostrato che il mantenimento della pace non può essere affidato, in carenza del vecchio equilibrio bipolare nucleare,  ai meccanismi di promozione della crescita economica o alla tutela delle regole di concorrenza, ma che anche essa ha bisogno di fondarsi su finalità comuni e predeterminate, ad esempio una economia organizzata  come quella prospettata  da Schuman. Forse dovremmo ricordare chi aveva capito che la pace non si costruisce con l’equilibrio del terrore, ma neppure con la crescita del PIL. Non è la crescita, è lo sviluppo la nuova via della pace, lo aveva già detto l’ Enciclica Populorum Progressio nel 1964.