Ucraina. Perché ?
Proviamo a capire Una guerra vicina.
Una minaccia incombente per tutto l’Occidente e per l’Europa
La profondità della storia
La vera Russia, come sanno gli storici del Medioevo, è nata in Ucraina. Il primo nucleo di quella che può essere considerata la civiltà russa si formò tra il IX e il XII secolo nel bacino del fiume Dnepr attorno alla città di Kiev, oggi capitale dell’Ucraina. Proprio dove adesso si muovono i carri armati di Putin.
Ero incerto se intitolare questo paragrafo: IquattroVladimir. Oggi si confrontano due Vladimir. Il più noto al potere in Russia da più di venti anni si chiama Vladimir Putin. Il secondo eletto in Ucraina a Presidente si chiama anche lui Volodymyr Zelensky. Prima ancora il capo dei bolscevichi Vladimir Il’ič Lenin, artefice della rivoluzione di Ottobre del 1917.
Ma prima ancora di loro un altro, Vladimir I il Santo, che nel 980, dopo una sanguinosa guerra fratricida per la successione, divenne il sovrano dell’intero Regno di Kiev. Vladimir era il più piccolo, ma riuscì a fuor fuori i tre fratelli e regnò sino al 1015. Riprese la Galizia ai polacchi, poi salì su sino al Mar Baltico. Eresse città, fortezze, colonie, allargandosi nella steppa. Il cristianesimo era già penetrato in quelle terre e già la nonna di Vladimir, Olga, era cristiana, ma il resto del vasto mondo circostante era pagano.
Vladimir aveva un esercito fedele ed efficace tanto da prestare aiuto a Basilio II, imperatore di Bisanzio, che, per evitare il peggio, gli diede in sposa la sorella Anna. Il miracolo a volte può accadere, così come la forza delle donne e dell’amore.
La conversione della Russia di Kiev al cristianesimo si aggiungeva a quella degli slavi del Baltico, poi della Polonia, Ungheria, Danimarca e Norvegia. Si dice che “bere è la gioia del russo” e per questo preferirono il cristianesimo all’islam. Battute.
In realtà la Russia era un crocevia culturale e Vladimir scelse il cristianesimo perché la cultura bizantina era più progredita e il cristianesimo aveva una forza spirituale unificante. Non si dimentichi che per quel periodo, cioè intorno al IX secolo, uno storico come Peter Burke parla di “umanesimo bizantino”1. Naturalmente ancora Bisanzio era unita a Roma, le divisioni si verificarono nel 1054. Vladimir I il Santo fu canonizzato dalla Chiesa come evangelizzatore dei
Russi, “eguale agli apostoli”.
La “Russia di Kiev” portò all’evangelizzazione delle terre slave con i fratelli missionari Cirillo e Metodio, ma Vladimir il Santo costruì chiese, strade, scuole ecc. Come si può capire scelse la Chiesa di Bisanzio, il patriarcato di Costantinopoli, l’Impero d’Oriente. Tutto dentro una civiltà
greco-cristiana-romana e nella fusione fra potere religioso e potere temporale.
Nel XVI secolo lo zar Basilio o Vasilij III concentrava su di sé il ruolo di imperatore e papa. Le altre due Rome potevano anche crollare, ma la terza, Mosca, secondo il monaco Filoteo, non sarebbe mai crollata. La Russia guardava a Occidente, a Roma, a Bisanzio. Ma da Est stavano arrivando su Mosca e su Kiev i Mongoli, che dal 1223 al 1240 dilagavano con i loro cavalli senza trovare resistenza adeguata.
Furono loro “l’orda d’oro” ad attrarre la Russia verso l’Asia centrale e verso il mondo musulmano. Anche perché dal XV secolo i Mongoli avevano abbracciato l’islam, una religione più adatta ad una civiltà di nomadi. Al posto dei cammelli, i Mongoli avevano i cavalli che rappresentavano una rivoluzione nell’arte della guerra. Mentre quello intorno a Kiev era una campagna immensa di contadini.
Così per secoli il mondo russo con la presenza dei Mongoli si allontanò dall’Occidente cristiano, a cui rimasero attaccate alcune città sul Mar Nero e sulla costa della Crimea. Quelle interessate al commercio e al grano, come le città marinare italiane: Genova, Venezia e i loro mercanti-banchieri e gli ebrei, che sapevano maneggiare le merci e i capitali.
Mosca non fu investita dalla grande rivoluzione del Rinascimento, che non fu solo arte, ma fu banche, commercio, ricchezza, tecnologia, urbanistica, navigazione ecc.
Purtroppo, come sempre, la globalizzazione comporta dei rischi. I Mongoli non portarono solo i cavalli e la guerra, portarono anche la peste. La peste nera che da Kaffa, una città fortificata della Crimea assediata dai Mongoli, costrinse i genovesi, grandi commercianti di grano, alla fuga, con le loro navi cariche di grano, di topi, di pulci e di peste. I Mongoli avevano catapultato dentro le mura di Kaffa i cadaveri dei loro appestati (1347). Fuggendo da Kaffa i genovesi portarono la peste a Messina e da lì in tutta Europa.
Fu così che nel Medioevo si accese il “ciclo infernale”: pestilenza, carestia, guerre e mutamento climatico (arrivò il freddo). Per resistere, anche se passivamente, ai Mongoli, i russi si aggrapparono alla loro fede ortodossa. Tuttavia erano in mezzo a più mondi fra Europa e Asia, fra cristianesimo e islam. Addirittura si sentirono un baluardo della civiltà cristiana. Da qui l’idea della Terza Roma. Un ruolo quasi messianico che ebbe un seguito nella cultura russa e nella politica con una sorta di profetismo e universalismo. L’ideologia comunista, se ci pensiamo, proietterà questa ideologia universalistica sino all’Europa e sino alla Cina. Poi nel mondo intero, sino al crollo del 1989.
Gli zar da Ivan il Terribile (1547-1584) a Pietro il Grande (1594-1725) sino alla Grande Caterina (1762-1784) cercarono di modernizzare quell’immenso impero guardando all’Europa. Se ci si pensa bene, queste componenti di cultura e politica arrivano sino al ’900 con il bolscevismo, che, dopo la guerra e la guerra civile a prezzi sociali terribili, costruì l’impero bolscevico con la dittatura e con il terrore, ma anche con l’industrializzazione forzata, con le comuni rurali, con i gulag per i dissidenti. Insomma con il totalitarismo di Stalin, fondato sulla dittatura del partito unico armato, con cui Vladimir Lenin andò al potere.
Così il primo Vladimir, il Santo, principe di Kiev, cristianizzò la Russia. Mentre Vladimir Il’ič Lenin “scristianizzò” la Russia, svuotò le chiese, perseguitò la religione ecc. L’Ucraina, allora, pagò un prezzo umano e sociale spaventoso. In verità già l’Impero zarista a partire dall’Ottocento, con il risveglio delle nazionalità in tutta l’Europa, proibì l’espressione di qualsiasi sentimento nazionale a seguito delle famose leggi del 1862 e del 1866, al tempo in cui nascevano l’Italia unita e la Germania. Così l’Ucraina di Kiev, dove c’era l’élite colta del Paese, fu repressa al punto che non si poteva parlare la lingua ucraina. Mentre l’Ucraina verso Occidente, Podolia, Volinia, Rutenia subcarpatica fu integrata nell’Impero austro-ungarico (1866), ma non si represse il sentimento nazionale ucraino. Nelle città sul mare come Odessa c’era una vitalità culturale e commerciale più aperta e una forte comunità ebraica .
2) La tragedia del Novecento
Veniamo al Novecento. Alla guerra e alla rivoluzione di ottobre del 1917.
L’Ucraina dal 1917 al 1921 fu una sorta di laboratorio della rivoluzione sia in senso nazionale che in senso comunista. Invano cercò di salvare la sua identità sia contro i bolscevichi sia contro i Bianchi, durante la rivoluzione civile. Ebbe anche un partito bolscevico russificato e minoritario, ma anche questo reclamava una certa autonomia da Mosca.
Quando si arrivò alla pace di Brest-Litovsk fra Russia e Germania nel 1918, l’Ucraina sembrava aver raggiunto finalmente la sua autonomia, benché nel quadro del bolscevismo dominante. Ci fu anche l’impegno da parte del Partito comunista bolscevico di convocare un congresso costituente per decidere democraticamente se “l’Ucraina sovietica sarebbe stata indipendente o no”.
La cosa si portò avanti sino agli Trenta. Intanto, però, l’Ucraina più di ogni altra regione subì la collettivizzazione forzata delle campagne. Era il granaio dell’Europa e della Russia, ma, grazie alla collettivizzazione forzata imposta dai bolscevichi, si trasformò in un deserto insanguinato. I kolchoz ucraini animarono una resistenza contadina repressa nel sangue. Ci furono più di 5 milioni di morti. Uno storico italiano, Ettore Cinnella, ha ricostruito questa tragedia in un volume intitolato Ucraina
1932–33.Ilgenocidiodimenticato(Della Porta, Pisa, 2018). In Ucraina, scrive Cinnella, la carestia del 1932-33 fu dovuta non ai capricci della natura, ma alle scelte politiche di Stalin per punire coloro che si opponevano alla collettivizzazione. In Ucraina lo sterminio dei contadini si accompagnò alla persecuzione della intellighenzia e alla repressione dell’identità della nazione. Gli intellettuali furono accusati di nazionalismo.
Nel 1939 l’URSS arrivò ad annettere l’Ucraina occidentale con la forza. Una regione che nel 1921 era stata restituita alla Polonia con il trattato di Riga. Poi la guerra, la Seconda guerra mondiale, con la fine del patto Ribbentrop-Molotov e la guerra di occupazione nazista verso la Russia. I nazisti trattarono gli ucraini come “subumani”. Poi russi e ucraini si batterono con grande forza contro gli invasori, tedeschi e anche italiani.
Tuttavia il nazionalismo ucraino era forte in opposizione al bolscevismo specialmente nella parte occidentale dove dal giugno del 1941 si formò l’Organizzazione dei nazionalisti ucraini (OUN) e proclamò Leopoli capitale. Dal 1942 con l’Ucraina occupata l’Armata insurrezionale ucraina (UPA) combatté sia contro i nazisti invasori, sia contro Mosca. Dopo la fine della guerra ci vollero anni prima che la Russia riuscisse a mettere sotto controllo la Ucraina occidentale (Leopoli per intenderci). La sottomissione di questo territorio non solo comportò una battaglia contro la resistenza armata, ma anche la persecuzione religiosa contro gli uniati, costretti a fondersi con la chiesa ortodossa, ma a subire anche deportazioni e trasferimenti di popolazioni intere. Operazioni del genere avvennero anche in altre parti dell’impero sovietico. Quando, nel 1953, morì Stalin, i “gulag” erano pieni e gli ucraini occidentali, più le popolazioni baltiche, lettoni, lituane, estoni rappresentavano il grosso dei deportati.
Nel 1954 ricorreva il 300° anniversario dell’accordo di Pereyaslav (1654) che aveva posto lo “Stato cosacco” (ucraino) di Bogdan Khmelnitsky sotto la protezione dello Stato russo. La Russia sovietica concesse la Crimea alla “Repubblica d’Ucraina”. In realtà si consacrava il passaggio dell’Ucraina, dalla dipendenza dall’impero zarista a quella dall’impero sovietico. Si voleva, secondo la retorica sovietica, suggellare «la lotta eterna del popolo ucraino per la sua libertà contro gli oppressori stranieri, per la riunificazione con il popolo russo in uno Stato unico: l’URSS».
In effetti i 400.000 tatari che abitavano la Crimea furono cacciati e deportati con l’accusa di aver collaborato con l’invasore nazista. L’Ucraina, però, fu sempre più stretta dall’abbraccio di Mosca. Nonostante il XX Congresso del PCUS (1956) e la condanna dei crimini di Stalin, nel periodo Krusciov, la riunificazione dell’Ucraina non conobbe soste. A Kiev e a Leopoli si tentò di approfittare del rinnovamento annunciato per rilanciare la cultura e la lingua dell’Ucraina.
Poi venne la repressione della Rivoluzione ungherese e poi quella della Primavera di Praga. Si capì che il comunismo non era riformabile e che i leader comunisti che volevano interpretare gli interessi dei loro popoli e nazioni venivano silurati, uno dopo l’altro. Come accadde al capo del partito comunista ucraino Petr Shelest. Una schiera di dissidenti ucraini che lottavano per i diritti nazionali e per la democrazia, come Leonid Pliušč e Vyacheslav Chornovil. La seconda repubblica dell’URSS venne stretta in un abbraccio mortale chiamato “unione indissolubile”. I giovani furono costretti ad abbandonare la loro lingua.
3) Dalla storia alla cronaca
La catastrofe della centrale nucleare di Chernobyl, esplosa nel 1986, segnò l’apice di questa tragedia con la popolazione ucraina lasciata per giorni senza soccorso. I tentativi di riforma, la perestrojka, di Gorbaciov misero in moto i sentimenti nazionali, ma non arrestarono il crollo dell’URSS. Nel 1990 si pose il problema della “sovranità dell’Ucraina”. Nel 1991 i cittadini dell’Ucraina, nonostante le divisioni, si pronunciarono massicciamente a favore dell’indipendenza. Sembrava, ormai, che la fine dell’Unione Sovietica avesse aperto la strada ad una composizione concordata dei problemi nazionali, che la Guerra fredda aveva congelato con la dittatura delle democrazie popolari create nell’Europa orientale dalla Russia. Nel 1994, infatti, si arrivò agli accordi di Budapest, con i quali l’Ucraina accettò la propria denuclearizzazione, trasferendo alla Russia gli ordigni nucleari che erano nel suo territorio. La NATO escluse la partecipazione dell’Ucraina al suo sistema di difesa. La Russia, a sua volta, si impegnò a riconoscere la sovranità dell’Ucraina. Su queste vicende Putin è passato sopra, violando accordi e patti di ogni tipo. Non solo calpestando la volontà del popolo ucraino, ma anche gli accordi commerciali che nel 2017 furono siglati dall’Ucraina con l’Unione europea.
La presenza di una minoranza di lingua russa nelle regioni orientali, circa il 40%, il peso dell’industria militare in quelle regioni di confine con la Russia, più la spinosa questione della penisola di Crimea, dove ormeggiava la base militare della flotta russa, ci fanno capire come la Russia di Putin non potesse accettare l’autonomia dell’Ucraina e il suo avvicinamento all’Unione europea. Tantomeno alla NATO. Le sanzioni seguite all’invasione russa dell’Ucraina con l’annessione della Crimea e l’appoggio alle regioni separatiste nel Donbass furono poca cosa. Così nel 2008, quando Putin attaccò la Georgia, l’Unione europea criticò Mosca ma anche Tbilisi.
Putin, ormai al potere da più di venti anni in Russia, non è un ideologo. Si è alleato con i vertici della Chiesa ortodossa per rilanciare quell’idea della Terza Roma, che la rivoluzione bolscevica aveva sostituito con l’internazionalismo comunista. Con l’idea di ricreare lo spazio dell’impero zarista ha combattuto contro l’islamismo in Cecenia, ha rivalutato l’invasione dell’Afghanistan contro i talebani, nonostante la sconfitta, rinfacciando agli Stati Uniti di aver contribuito all’umiliante ritirata dell’Armata rossa. Seguita, oggi, dalla ritirata americana e occidentale da Kabul, una sconfitta che ha motivato ancora più Putin nei suoi progetti imperiali.
L’alleanza di Putin con la Chiesa ortodossa coincide con la fisionomia di restauratore della morale contro la corruzione dell’Occidente. Vedi la discriminazione degli omosessuali. L’autoritarismo e la repressione dell’opposizione, fanno della Russia putiniana un modello di democrazia autoritaria e illiberale. L’uomo forte si ripropone di restaurare la grandezza della Russia contro la decadenza e il degrado morale dell’Occidente. Così, stranamente, Putin può piacere a destra e a sinistra, anche in Italia, come si vede in questi tragici giorni di guerra.
Nel 2005 Putin dichiarò che la caduta dell’Unione Sovietica era da considerare «un disastro geopolitico di prima grandezza». In realtà alcuni studiosi osservano che Putin, che spesso ha parlato come oggi di complotto americano contro la Russia, per un certo periodo, quando alla Casa Bianca sedeva il Presidente Obama e Presidente russo era Dmitry Medved, fu firmato un nuovo trattato contro la proliferazione delle armi nucleari. Poi la Russia aderì all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Nel 2010 i cittadini russi per il 60% avevano una immagine positiva degli Stati Uniti.
In realtà Putin continuava ad allargare il suo potere all’interno e nello spazio ex sovietico. Durante la prima fase Putin si cimentò nella guerra in Georgia, nell’invasione delle repubbliche separatiste di Abkhazia e Ossezia del Sud, trasformate in protettorati russi. Così come la Bielorussia, con governi “amici”.
Quando nel 2011 Putin si ricandidò per la terza volta alle elezioni presidenziali ci fu un cambiamento evidente. Putin denunciò a più riprese il ruolo dei social media nel dare spazio all’opposizione e alcune ONG occidentali di alimentare i movimenti contro di lui. Poi si arriva ai due atti di “guerra” più gravi da parte di Putin: la già ricordata annessione della Crimea e i combattimenti in Ucraina. Né si possono dimenticare gli interventi in Siria a fianco del Presidente Bashar al-Assad nel 2013. Poi quelli in Libia. Era chiaro che Putin non voleva che la Russia fosse considerata una potenza regionale come pensava la diplomazia americana. Putin si sentiva minacciato dall’allargamento della NATO verso i Paesi dell’ Est-Europa e soffriva di un complesso di “accerchiamento”.
Si sente accerchiato dalla NATO e dall’Occidente. I Paesi dell’ex patto di Varsavia che sono entrati nell’Alleanza Atlantica, che è pur sempre un’alleanza difensiva, non hanno mai minacciato Mosca. Semmai l’Occidente nel suo complesso, e di sicuro la Ue, ha sottovalutato la portata minacciosa delle parole e delle azioni di Putin, che rilancia, oggi, la sfida con la guerra in Ucraina e la distruzione delle sue città. Mentre minaccia l’Europa e l’Occidente.
Siamo già alla cronaca. All’oggi. Il giudizio sembra ormai affidato alla logica tragica delle armi. Lo storico si può fermare, ma non può confondere l’aggredito dall’aggressore.
L’Euro difesa: un progetto mai realizzato
Nella bozza delle conclusioni del vertice dei 27 capi di governo Ue, che si è tenuto a Versailles, si legge che: «La guerra di aggressione della Russia rappresenta una svolta tettonica nella storia europea». Da qui l’impegno collettivo «ad un aumento sostanziale delle spese militari» e anche alla graduale eliminazione delle importazioni dalla Russia, inclusi petrolio, gas e carbone.
L’autonomia energetica, come si è scoperto un po’ in ritardo, assume una valenza strategica. Così come l’esigenza di arrivare alla creazione di una forza di difesa e sicurezza condivisa. Davanti alla percezione di una minaccia esterna così grave e così vicina, l’Unione europea scopre, con un ritardo di circa ottanta anni, la necessità di uno strumento di difesa dei propri confini. Anzi scopre l’esigenza e la criticità dei confini ad Est come a Sud.
La questione di una forza europea di sicurezza e di difesa era sentita già dai padri fondatori, mentre l’Europa era divisa dalla “cortina di ferro” e il mondo congelato nelle sfere di influenza della Guerra fredda. Il problema per i Paesi che aderivano alla Comunità europea, prima, e all’Unione (1992), era quello dei delicati rapporti fra i vari Paesi europei occidentali, compresa la metà della Germania entrata fin da subito nella Comunità, e la NATO.
In realtà, contrariamente da quanto spesso si legge ancora oggi, il tema di una «forza armata europea è antico quanto quello della stessa Europa ed è legato ai momenti più importanti del processo di integrazione»2. Basti pensare al fallimento della CED, la Comunità Europea di Difesa, su cui tanto aveva puntato il presidente del Consiglio italiano Alcide De Gasperi e persino Carlo Sforza. La questione più seria era rappresentata dal fatto che la Guerra fredda poneva agli
occidentali l’esigenza del riarmo della Germania per integrarla nella nascente organizzazione militare della NATO. Specialmente per fronteggiare la politica espansionistica di Stalin nell’Europa centrale ed orientale e poi l’espansione del comunismo nella Corea del Nord. Nei fatti, al di là delle diverse posizioni degli europei con opinioni pubbliche ancora ostili ad ogni idea di riarmo, non c’è dubbio che gli Stati Uniti guardarono al progetto della CED con la massima freddezza.
Solo l’Italia puntava a fare della Comunità europea una vera e propria comunità politico-economica. Del resto una comunità economica fondata sulla produzione di carbone e acciaio non poteva non contemplare una strategia di sicurezza anche sul piano militare.
Nell’incontro del Consiglio atlantico di Lisbona (20-25 febbraio 1952), con l’allargamento della NATO alla Grecia e alla Turchia, si posero anche le basi che portarono successivamente i “Sei” a firmare il trattato istitutivo della CED. Contemporaneamente si assicurava alla Germania il recupero della sovranità nazionale (27 maggio 1952). Sembrava possibile anche un rilancio delle idee federaliste con il trattato della CPE, Comunità Politica Europea, caldeggiata da Altiero Spinelli.
Le questioni si complicarono proprio per le vicende politiche interne ai due Paesi che maggiormente l’avevano sostenuta: l’Italia e la Francia3. Alla fine, però, la sorte della CED si giocò a Parigi, dove nel 1952 la coalizione di centro-destra aveva vinto le elezioni. L’opposizione al Trattato fu portata avanti dalle forze conservatrici e dai gollisti, ma anche da parte dei socialisti e specialmente dei comunisti, allineati con Mosca e sempre sostenitori del pacifismo a senso unico.
La Francia, poi, era alle prese con la guerra in Indocina che raggiunse il suo apice nella primavera del 1954 con la sconfitta di Dien Bien Phu. Intanto, anche la Gran Bretagna non remava a favore della CED, né le forze laiche e nazionaliste all’interno dei Paesi comunitari. Tanto che i principali sostenitori del progetto federalista e della CED, De Gasperi, Schuman e Adenauer, tutti e tre leader cattolici apparvero come l’espressione di una “Europa vaticana”.
I “neutralisti” in Italia, i comunisti e gli stessi socialdemocratici in Germania, temevano che il trattato CED avrebbe allontanato la riunificazione del Paese.
Il Parlamento francese nell’agosto del 1954 bocciò il trattato su una questione procedurale, ma, in realtà, i sentimenti nazionali erano radicati e non furono valutati. In più la Guerra fredda, anche dopo la morte di Stalin nel 1953, spingeva l’opinione pubblica verso la protezione americana secondo la logica dei blocchi contrapposti4. A questo proposito non si può ignorare che persino il segretario del PCI Berlinguer, nel luglio del 1976, in una intervista al giornalista Giampaolo Pansa, sostenne che si sentiva più sicuro sotto l’ombrello della NATO.
Infine come non ricordare che, dopo il crollo del Muro di Berlino, tutti i Paesi che avevano provato la “tirannide” di Mosca e i carri armati nelle loro strade e nelle loro piazze, Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, per non parlare delle Repubbliche Baltiche, prima scelta che fecero fu quella di mettersi anche loro sotto l’ombrello protettivo della NATO.
La bocciatura della CED ebbe conseguenze notevoli: la prima fu quella di colpire insieme sia il disegno federalista che quello dell’esercito europeo. Ancora una volta il funzionalismo di Jean Monnet riprese il suo corso. Insieme con il mercato comune, coll’unione doganale fra i “Sei”, egli lanciò l’idea di un pool dell’elettricità, dei trasporti e sullo sviluppo dell’uso pacifico della energia nucleare (Messina 1955). Così i Trattati che istituivano la Comunità economica europea (CEE) e l’Euratom furono firmati il 25 marzo 1957 a Roma, in Campidoglio (Italia, Francia, Germania occidentale, Belgio, Olanda e Lussemburgo). L’Euratom doveva fornire a buone condizioni l’energia di cui l’Europa dei “Sei” avrebbe avuto bisogno e nello stesso tempo assicurare una maggiore indipendenza nel settore nucleare. Il tutto nel quadro di un assetto istituzionale: la CEE, l’Euraton e la CECA; un’Assemblea comune di 142 parlamentari eletti dai Parlamenti nazionali con funzioni di controllo sulle decisioni della Commissione dei membri della CEE. La Comunità di crisi in crisi continuava ad andare avanti con uno straordinario sviluppo economico e civile, che nemmeno i momenti più bui della Guerra fredda riuscirono a fermare.
Aveva ragione Jean Monnet quando, a proposito del fallimento della CED, dichiarò: «La costruzione dell’Europa non è la realizzazione intellettuale di un sogno, bensì l’adattamento di questo sogno alla realtà». Parole sagge e vere.
Il Generale De Gaulle, dopo il colpo di stato in Algeria, il 1° giugno 1958 andò al potere in Francia. La sua visione dell’Europa si potrebbe riassumere così: una Unione degli Stati e non gli Stati Uniti d’Europa.
La Guerra fredda diventava sempre più “calda” con la crisi di Berlino che culminò con la costruzione di un “Muro” che tagliava in due l’Europa e rendeva impossibile la fuga dei tedeschi dell’Est verso l’Occidente. A migliaia tentarono di scappare e molti ci lasciarono la vita. In quel momento il Presidente americano John Kenendy, amico di Monnet, varò un grande piano per favorire gli scambi con l’Europa occidentale; ma, nello stesso tempo, con la crisi di Cuba e con la sua visita a Berlino, dimostrò che la difesa dell’Occidente passava per gli Stati Uniti e l’Alleanza Atlantica.
De Gaulle, intanto, dotava la Francia di una forza atomica e nel 1966 usciva dall’organizzazione militare della NATO, pur restando alleata. De Gaulle riconosceva la Cina comunista, visitava la Russia (giugno 1966), disapprovò gli americani per la guerra in Vietnam e propose la neutralizzazione. Infine non sostenne Israele nella “Guerra dei sei giorni” (giugno 1967). Cercava un ruolo di grande potenza per la Francia, ma il bipolarismo della Guerra fredda non lasciava che un piccolo spazio.
Intanto l’Europa marciava dai “Sei” ai “Nove” con Irlanda, Danimarca e Norvegia. Mentre l’Inghilterra restava nella Comunità economica ma poneva le sue condizioni, mettendo davanti il primato dei rapporti con il Commonwealth e gli Stati Uniti.
Nel 1972 si realizzò il Consiglio europeo, sempre ispirato da Monnet. Tre volte all’anno i capi di Stato e di governo si sarebbero dovuti riunire per organizzare la “cooperazione politica”. Nel 1979 si creò il sistema monetario europeo. Infine si arrivò a dare corpo alla istituzione del Parlamento europeo (1979), di cui Simone Veil fu la prima Presidente. Nelle elezioni prevalsero le forze popolari moderate e i socialdemocratici, ma entrarono anche 48 comunisti, di cui 27 italiani, 10 francesi, 4 greci e 1 danese. Nelle elezioni successive del giugno 1984 la maggioranza fu confermata e i comunisti persero 6 seggi.
La Guerra fredda era entrata nella sua fase finale, con i Paesi dell’Est Europa tenuti sotto il tallone dai carri armati sovietici. Mentre i Paesi europei della Comunità, saliti a 12, erano avviati su un cammino di crescita economica e sociale. Coperti dall’ombrello della NATO, che permetteva loro di investire nello sviluppo civile e sociale, senza preoccuparsi della spesa militare per garantire alla Comunità una autonomia di difesa e sicurezza. Poi arrivò, improvviso e fragoroso, il crollo del Muro di Berlino (1989) e poi la fine della Unione Sovietica. Solo allora fu ripreso il tema di una forza militare europea integrata. La questione entrò nel vivo con il Trattato di Maastricht, che segnò il passaggio dalla Comunità all’Unione.
La Guerra fredda era finita, ma non erano finite le guerre. Come subito si vide nel Golfo e così nella Jugoslavia, dove la dittatura di Tito era riuscita a far convivere etnie e popoli tanto diversi. La dittatura, del resto, era anche la ricetta con cui si erano frenate le rivendicazioni nazionali e di etnie tanto diverse nell’impero sovietico. Ho visto un servizio sulle guerre terribili, le pulizie etniche, nella guerra di tutti contro tutti della Jugoslavia, che pretendeva di spiegare tutto in maniera semplicistica: con Tito filava tutto liscio, dopo, con la fine di Tito e del comunismo, ritornava il nazionalismo bellicista e gli odi fra etnie e religioni. Le cose sono un tantino più complesse. Le nazioni c’erano anche in Europa occidentale, ma il ritorno della democrazia e della libertà, anche per le dittature di destra o militari dalla Grecia al Portogallo e alla Spagna, avevano aperto uno spazio di convivenza pacifico e fruttuoso. Questa era l’Unione europea che con il Trattato di Maastricht era diventata un polo di attrazione per i Paesi dell’Est Europa che uscivano dall’esperienza della “cortina di ferro” e del comunismo. Solo la democrazia e lo sviluppo sociale ed economico potevano tenere insieme le diversità interne anche delle nazioni dell’Europa occidentale e mediterranea.
Le classi dirigenti si illusero, però, che si sarebbe aperta un’era di pace e progresso assicurata dall’apertura dei mercati a livello globale. Tanto è vero che, senza bilanciamenti e prudenza, anche la Cina, in pochi anni, dal 1995 in poi, entrò nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Tuttavia, non è vero che in Europa non ci si occupò del tema della difesa e della sicurezza. Anzi. Già alla fine degli anni Ottanta Francia e Germania si adoperarono per creare un Consiglio di sicurezza e difesa e per la creazione di una brigata franco-tedesca destinata a diventare nel 1992 l’Eurocorpo5. A Maastricht Francia e Germania proposero di dar vita ad un organismo di difesa dell’Unione europea. Inglesi e olandesi si opposero per timore di un indebolimento della NATO.
«Da allora – scrive Mammarella – il problema dei rapporti con la NATO diventerà il maggior ostacolo che impedirà o ritarderà la creazione di una forte armata europea producendo una serie di iniziative tanto numerose quanto frammentarie che nel corso degli anni diventeranno la fonte principale di malintesi e sospetti tra Europa e Stati Uniti»6.
Il trattato di Maastricht (Titolo I, art. B) sottolineava che tra gli obbiettivi dell’Unione c’era quello di affermare «la sua identità sulla scena internazionale mediante l’attuazione di una politica estera e di sicurezza comune ivi compresa la definizione a termine di una politica di difesa comune»7. In modo involuto nasceva la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC), prevista dal Trattato.
Nel 1992 l’Unione europea occidentale decideva di partecipare alle Missioni di Petersberg, cioè interventi umanitari di peace-keepinge quelli per la gestione delle crisi e la risoluzione dei conflitti. Tutto ciò mentre nella ex Jugoslavia infuriava la guerra di tutti contro tutti. Nel 1995 nasceva Eurofor, una forza di reazione rapida diretta a operazioni nel Mediterraneo, con Francia, Italia, Spagna e Portogallo e nello stesso anno Euromarfor. Tutti e due alle dipendenze della Ueo e poi, nel 1999, della stessa Unione europea. Tutto ciò in coordinamento con la NATO, come si vide con la costituzione di una Identità di Sicurezza e di Difesa Europea. Sempre nel 1999 la PESC si trasformava in PESD, cioè Politica Europea di Sicurezza e Difesa.
Se non fosse una cosa seria, verrebbe da sorridere, anche perché sorsero altri organi come il Comitato Politico e di Sicurezza (Cops) per il monitoraggio e la gestione delle situazioni di crisi internazionali. Poi il CMUE, il Comitato Militare dell’Unione. Infine uno Stato Maggiore dell’Ue, un organo esecutivo per le decisioni del COPS. Una montagna di sigle e un apparato burocratico- militare fondato sulla moltiplicazione degli organi.
A Saint-Malo Jacques Chirac e Tony Blair avevano dichiarato che la Ue doveva avere «la capacità di intraprendere azioni autonome sostenute da forze militari credibili»8. Poco dopo, ad Helsinki, il Consiglio europeo varava una forza di reazione rapida (Eu Rapid Reaction Force) di 100.000 uomini. Puntuale arrivava il freno del governo americano. Si voleva evitare la duplicazione, la divisione della strategia europea da quella della NATO. Infine l’esclusione dei membri che non
fossero membri della Ue. Era il caso della Turchia, dove c’era la più grande base NATO. Una dichiarazione congiunta Ue-NATO nel 2002 confermava che l’America voleva mantenere il controllo della forza militare. Nel 2004 l’Unione europea creava l’EDA (European Defence Agency), con l’obbiettivo di promuovere la ricerca di tecnologie per la difesa e la cooperazione in materia di armamenti.
Si agiva con lentezza, mentre nel mondo si apriva uno “scontro di civiltà” imponente con l’attentato alle Torri Gemelle l’11 settembre 2001. Ormai si trattava di fronteggiare una situazione mondiale grave e gli USA erano in prima linea nella lotta all’integralismo islamico e al terrorismo jihadista. Si pensava di esportare e imporre la democrazia, ma non era impresa facile, tantomeno con le armi. L’Europa, ormai, era sempre più grande, ma non riusciva a darsi una cornice istituzionale condivisa con il fallimento del progetto di trattato costituzionale nel 2005. In quel periodo prese corpo il progetto di Eurofighter, ma anche l’industria degli armamenti dei Paesi europei procedeva separata. Entrata nel mondo della globalizzazione accelerata degli ultimi trent’anni, anche per il crollo del Muro di Berlino e per l’avvento della Rete delle Reti, l’Europa si è allargata verso Est, ma ha conosciuto la crisi economico-finanziaria del 2008, il moltiplicarsi degli effetti del globalwarming, la pandemia e ora la guerra in Ucraina.
Tutto spingerebbe verso una piena sovranità dell’Unione europea in campo digitale, energetico, sanitario, della difesa e della sicurezza. Una esigenza che viene suggerita da sfide giganti, che solo insieme si possono affrontare in un mondo multipolare. L’Unione europea è apparsa come un gigante economico, ma un nano sul piano strategico-militare. La tragica sfida lanciata da Vladimir Putin all’Ucraina è una provocazione per l’Europa e l’intero Occidente. Si pensi che il Consiglio europeo già nel 2017 aveva riconosciuto «le aspirazioni europee e la scelta europea dell’Ucraina» (Accordo siglato nel 2014, con la guerra nelle province del Donbass, ed entrato in vigore nel 2017). Tuttavia la procedura di ingresso dell’Ucraina nella Ue non si è ancora compiuta. Né si sentì la necessità di aprire un tavolo diplomatico fra Ucraina e Russia per il Donbass e le regioni russofone dove era scoppiata la rivolta armata.
Mentre infuria la guerra di occupazione di Putin contro l’Ucraina, bisognerà aprire gli occhi sul fatto che, sebbene il mondo sia sempre interconnesso, la guerra è sempre una eventualità da mettere in conto. Esiste ancora, nonostante i mercati globali, una distanza incolmabile fra autocrazia e democrazia. La visione ottimistica che gli scambi economici e sociali, in società interconnesse, potevano sviluppare la democrazia e la pace non vale davanti a chi non accetta le più elementari regole e i valori della democrazia e della libertà.
Siamo all’oggi e la crisi della Crimea, annessa da Putin, e la guerra con l’Ucraina per le regioni del confine orientale vedono l’Unione europea incapace di avanzare, anche con la minaccia della forza, proposte di assetto condiviso del confine con la Russia. Fra Paesi dell’Est europeo che erano entrati nella Ue e nella NATO ed altri, come l’Ucraina, che lottavano per affermare la loro autonomia nazionale e poi chiedevano di entrare nella Ue. L’Ucraina dal 2014 si trovava a fronteggiare la rivolta armata delle regioni di confine con la Russia, sostenuta da Putin.
Putin, ormai, non si limita alle minacce, ma agisce, mentre l’Unione non sa come reagire ad una aggressione militare in spregio a tutti gli impegni internazionali, come ha ricordato Sabino Cassese9.
La svolta della Ue è stata traumatica e ha riguardato inprimisla Germania, che, per la prima volta dal dopoguerra, ha deciso di inviare armi a Kiev e aumentare al 2% del PIL le spese militari. La Danimarca ha indetto un referendum per aderire all’Eurodifesa, da cui si era a suo tempo esclusa. Finlandia e Svezia meditano di entrare nella NATO.
La NATO, che è sentita da Putin come una minaccia, non riguarda l’Ucraina, come è noto. Fondata nel 1949, la NATO comprende, oggi, trenta Paesi: 28 in Europa, fra cui la Turchia, più i due Paesi del Nord America. Doveva contenere l’Unione Sovietica, che aveva imposto con la forza il suo modello a partito unico nei Paesi europei liberati dall’Armata Rossa. La presenza americana, come abbiamo visto, è stata decisiva nel periodo della Guerra fredda per contenere le mire dell’URSS. Dopo la caduta del Muro di Berlino si è passati da oltre 430 mila soldati americani a molti di meno. Nel 2014, quando Putin attaccò l’Ucraina e annesse la Crimea, i soldati americani in Europa erano meno di 70 mila. Solo 5, dei 14 Paesi che confinano con la Russia, appartengono alla NATO. Probabilmente l’Unione europea avrebbe dovuto produrre una iniziativa più incisiva per la sicurezza reciproca. Con la Russia di Putin non è impresa facile, ma si poteva fare di più. Molto di più anche per la indipendenza dell’Europa in fatto di energia, dato il ruolo strategico che le risorse energetiche rivestono nel mondo attuale e nelle società più sviluppate, altamente “energivore”.
La Ue sta tentando di svincolarsi progressivamente dalla dipendenza di gas e benzina della Russia, dopo aver imprudentemente varato un ambizioso piano con il Green Deal. La Ue si accorge – non è mai troppo tardi – dell’esigenza di una autonomia strategica, militare ed energetica, dopo quella per fronteggiare unitariamente la pandemia del Covid. Si riuscirà adesso a portare in porto l’antico progetto dell’Eurodifesa? A parole sembrerebbe di sì. Nei fatti, ancora una volta, occorrerà risolvere i rapporti con la NATO e con gli Stati Uniti, che, ancora oggi, forniscono il 75% della capacità operativa, il 70% degli apparati strategici (ricognitori, elicotteri, comunicazioni satellitari ecc.). Più il 100% della difesa antibalistica e circa 70.000 soldati.
Però è certo che oggi la guerra di Putin non si può risolvere con l’appeasement.Per difendere la pace, bisogna riuscire a dissuadere gli altri dal fare la guerra. Per questo non basta la diplomazia per volere la pace, che rappresenta un grande valore per la civiltà e i popoli dell’Europa.
1 Cfr. P. Burke, Il Rinascimento europeo, Laterza, Roma-Bari, 2018.
2 G. Mammarella, Europa e Stati Uniti dopo la guerra fredda, Il Mulino, Bologna, 2010, p.49
3 Cfr. G. Mammarella, P. Cacace, Storia e politica dell’Unione europea, Laterza, Roma-Bari, 2005, p.71
4 Cfr. J.B. Duroselle, Storia dell’Europa. Popoli e paesi, Introduzione di S. Romano, Bompiani, Milano, 1990
5 Cfr. G. Mammarella, op. cit., p. 49.
6 Ibidem
7 Ivi, p.50.
8 Ivi, p.51.
9 Cfr. S. Cassese, È tuttoillegale, in “Corriere della Sera”, 8 marzo 2022.
Guerra e pace: le religioni
Il patriarca di Mosca Kirill, capo della Chiesa cristiana ortodossa russa, che ha 75 anni, ha “benedetto” l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. «Questa guerra – ha detto – è contro chi sostiene i gay, come il mondo occidentale, che impone con la forza un peccato condannato dalla legge di Dio». Kirill è a fianco di Putin, sempre generoso con la Chiesa ortodossa russa.
Nello stesso tempo il metropolita Epifanio, capo della più grande delle due Chiese ortodosse dell’Ucraina, quella che dipende dal Patriarcato di Costantinopoli, ha detto: «Noi ucraini combattiamo con Dio dalla nostra parte. Dio ci conceda la vittoria». I capi delle Chiese ortodosse si sono mobilitati a fianco dei loro governi, ma in Ucraina è successo che la guerra ha contribuito ad avvicinare le due Chiese ortodosse, quella fedele a Costantinopoli e quella fedele a Mosca. Prima le due Chiese ortodosse presenti in Ucraina erano rivali, ora la guerra le ha riunite. Persino il patriarca di Mosca, Kirill, in passato non era sempre stato in accordo con Putin. Ad esempio nel 2014 era stato contrario all’invasione russa della Crimea. La Chiesa ortodossa di Ucraina, proprio nel 2014, si divise. La guerra può dividere, ma anche unire.
Gli ucraini seguono per il 60% la Chiesa ucraina e solo per il 15% quella fedele a Mosca. I cattolici, che in Russia sono intorno all’1%, in Ucraina sono circa il 10%, cioè circa quattro milioni di fedeli. Papa Francesco, che pure non ha messo sullo stesso piano l’aggressore e l’aggredito, ha detto: «Dio è solo Dio della pace, non è Dio della guerra, e chi appoggia la violenza ne profana il nome». Papa Francesco pensava da tempo di stabilire rapporti di amicizia con il patriarca di Mosca e di ricucire la divisione millenaria fra cristiani, cattolici e cristiani ortodossi. Non sarà facile.
Eurodifesa: l’ultimo parto
I ventisette Paesi della Ue, il 21 marzo, a meno di un mese dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte di Putin e dopo due anni di negoziato, hanno deciso la nascita di «una capacità» di rapido intervento composta da 5.000 soldati. Entro il 2025. L’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha dichiarato: «L’Europa è in pericolo e, ormai, ciò è platealmente ovvio».
Il documento di cinquanta pagine prevede che l’Unione europea si rafforzi nella capacità di agire, migliori la sicurezza nel settore della cibernetica e dell’intelligence, investa in nuove tecnologie industriali, promuova nuove forme di collaborazione in particolare con la NATO. Forse è vero che non è mai troppo tardi. Il ministro della Difesa italiano, Lorenzo Guerini, ha parlato di un primo passo verso l’Europa della Difesa. Forse bisognerebbe andare al passo dei bersaglieri. Si dice che non si vuol creare un esercito europeo, ma coordinare gli eserciti nazionali. Resta il fatto che i ventisette Paesi della Ue spendono ogni anno in campo militare quattro volte quanto la Russia e un ammontare simile a quello della Cina.
Borrell ha dichiarato che si dovrà essere «più efficienti». Noi lo speriamo.
Nuove sanzioni e crisi economica
I ventisette Paesi della Ue non hanno trovato un accordo sul blocco dell’import di petrolio dalla Russia. Il petrolio costituisce la più grande entrata dell’economia della Russia. Circa 27 milioni di barili al giorno viaggiano verso l’Europa e rappresentano circa il 55% dell’export totale della Russia. Se si ferma il flusso di petrolio, Putin lascia l’Europa alla canna del gas, che oggi copre il 40% del fabbisogno della Ue.
Fra pochi giorni si dovrà decidere, ma all’unanimità. È noto che Italia, Germania, Olanda e Ungheria considerano impraticabile uno stop immediato al petrolio di Mosca. Il Regno Unito ha già bandito l’import del petrolio dalla Russia, ma ha la sua autonomia e non fa parte della Ue, che, troppo tardi, si è accorta dell’importanza strategica delle fonti energetiche. Annunciando al mondo transizioni ecologiche senza calcolare gli effetti che avrebbero potuto avere all’esterno e sulla stessa economia della Ue.