NOTIZIARIO EU – ISFE n°5

11 aprile 2022

Macron in testa al primo turno in Francia

  Trentasei milioni di francesi hanno votato e Macron è in testa al primo turno, ma non sarà una passeggiata. Il vento protestatario, alimentato dalla pandemia prima e dalla guerra, soffia forte anche in Francia e la destra francese nelle sue due componenti è arrivata quasi al 30%.

I francesi sono preoccupati, come tutti i cittadini europei, e non solo per la guerra, ma per la situazione economica, che incide fortemente sulla situazione sociale. L’inflazione è il virus invisibile, ma presente nella vita quotidiana dei consumatori, nei costi delle materie prime e dei consumi alimentari. Poi il tema dell’immigrazione.

Se i tedeschi la temono più di tutti, l’inflazione, anche gli altri cittadini europei la patiscono e pagano il conto sempre più salato. La Le Pen ha sfruttato in maniera sistematica questi timori in fasce estese della popolazione francese: quelle della provincia francese. Ecco i risultati: 27,6% Macron; 23,4 % Le Pen; 21% Mélenchon; 7% Zemmour.

Le astensioni sono state significative, ma potranno essere riassorbite al secondo turno. I sondaggi nel secondo turno prevedono la vittoria di Macron, anche se di misura. Quello che accadrà in Ucraina e in Europa in questi quindici giorni prima delle elezioni del secondo turno potrebbe influenzare il voto e i risultati finali. Tuttavia il presidenzialismo francese conferisce al sistema una sua stabilità, se non dei partiti, certo nei leader in competizione. Alla fine i francesi potranno scegliere il loro Presidente.

La vittoria di Orbán in Ungheria

 Il partito di Orbán, Fidesz, ha ottenuto il 53% dei voti, il rivale Márki-Zay si è fermato al 35%. Dal punto di vista dell’Unione europea ci sarà da riflettere. Nonostante Orbán sia il politico europeo più vicino a Putin, da cui dipende anche per le fonti energetiche, nonostante sia quello meno liberale e con il quale esiste un duro contenzioso, l’Unione europea non può ignorare il ruolo dell’Ungheria nel delicato confine orientale, ora sconvolto dall’invasione di Putin dell’Ucraina.

Orbán è contrario alle sanzioni europee contro Mosca, ma non ha posto veti. Il problema sarà quello di incalzare Orbán, ma evitare di colpire gli ungheresi e di isolare l’Ungheria. Molti, anche la stampa inglese, vorrebbero questo, ma sono cattivi consiglieri. Orbán è uscito dal Ppe, ma ci sono molti ammiratori anche in Italia.

La vittoria di Orbán, però, ha messo in crisi anche l’alleanza con i Paesi del gruppo Visegrád, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e, appunto, Ungheria. La guerra in Ucraina sta sconvolgendo il mondo e l’Europa, l’ Unione europea dovrà salvare ad ogni costo la sua unità di fondo contro una guerra di aggressione di cui non si vede la fine.

Anche per i politici italiani che apprezzano Orbán, da Salvini alla Meloni, la necessità di muoversi in maniera prudente e attenta all’unità dell’Europa e dell’Occidente è un problema ineludibile, se vogliono essere all’altezza delle sfide di Putin.

Infine non bisogna trascurare il fatto che Orbán ha perso la consultazione popolare da lui voluta sulla legge che vieta la «promozione dell’omosessualità». La votazione è risultata nulla per mancanza di quorum, avendo votato solo il 44,32 % degli aventi diritto. Un segnale di cui Orbán dovrà tenere conto ed anche l’Unione europea, che proprio su quella legge aveva avviato una procedura di infrazione. Probabilmente gli ungheresi hanno voluto dare un segnale in senso europeo ed un invito ad Orbán a non esasperare i rapporti con la Ue sul tema dei diritti delle minoranze.  

Viktor Orbán: una mossa diplomatica interessante

 Mentre, sinora, ogni trattativa sembra inutile, appena eletto Viktor Orbán si è offerto di ospitare una conferenza a Budapest con Putin e Zelensky. Intanto ha fatto sapere che ha chiesto a Putin di «ordinare un immediato cessate il fuoco». Il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz hanno dichiarato che potrebbe essere una buona mossa per arrivare ad una tregua. Persino il Segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha chiamato Orbán per saperne di più. A ben vedere Putin non sembra fidarsi di nessuno. Nemmeno degli amici. Però vedremo.

«Ho sempre visto Putin – ha dichiarato – come un uomo che voleva ridare alla Russia l’orgoglio di un Paese potente, poi ha deciso di ricreare l’impero russo con la guerra: l’invasione [dell’Ucraina] mi ha sorpreso. Dopo il 2014 era chiaro che avrebbe fatto di tutto per indebolire l’Ucraina, ma un’ invasione dell’intero Paese sembrava totalmente illogica. L’Ucraina si era preparata, ha un esercito che funziona ed è cresciuto l’orgoglio nazionale, era chiaro che la guerra sarebbe stata difficile e lunga». Poi ha sollevato una questione che dovrebbe far riflettere i molti dubbiosi e i molti sedicenti pacifisti nostrani: «Non possiamo permettere a Putin di vincere questa guerra perché non smetterà con l’Ucraina, la sua visione dell’impero russo è una minaccia per tutta l’Europa. Se crediamo nei nostri valori e nella nostra libertà, dobbiamo aiutare Kiev a difendersi. È in gioco non solo la libertà dell’Ucraina ma anche la nostra. È un confronto ideologico fra democrazia e autocrazia. Dobbiamo restare uniti». Parole nette e forti, ma che non valgono per tutti coloro che a destra come a sinistra non hanno mai apprezzato i valori dell’Occidente.

La Russia sospesa dal Consiglio ONU sui diritti umani

 L’ONU con 93 voti favorevoli ha sospeso la Russia dal Consiglio per i diritti umani, in seguito alle notizie sulle violazioni e gli abusi da parte dei soldati russi. Ventitré Paesi hanno votato no, tra cui Cina, Siria, Cuba, Iran, Corea del Nord, tutti Paesi lontani da qualsiasi logica liberaldemocratica. Fra i 58 Stati astenuti figurano India, Pakistan e Brasile. Uno smacco per Putin, che non si può fidare nemmeno degli Stati che si sono astenuti.

La guerra sul campo e i costi umani

 Quelli più terribili e per ora non calcolabili, anche perché sepolti sotto le macerie, oppure perché scappati, ammalati, o affamati riguardano gli ucraini. Le cronache dolorose ne parlano tutti i giorni.

Dopo 43 giorni di guerra Putin non ha centrato i suoi obbiettivi, come l’intenzione di insediare a Kiev un governo filorusso, magari guidato da quel Viktor Yanukovich, che fu defenestrato durante la manifestazione di protesta del 2014. Ora concentra le sue forze verso l’Est per tentare di consolidarsi nel Donbass.

Intanto, però, i russi hanno perso migliaia di soldati, (7-8 mila secondo fonti autorevoli), più un ingente numero di blindati e di mezzi tecnologici. Mariupol è ridotta in macerie, ma si combatte ancora vicino al porto. Solo Kharkiv è nelle mani dei russi, che bombardano anche Odessa. Si attendono giorni decisivi e terribili.

Ursula von der Leyen a Kiev

 In uno scenario pauroso per la scoperta di morte e distruzione intorno alla capitale, la Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen e l’Alto rappresentante Ue per gli affari esteri, Josep Borrell, si sono recati a Kiev per incontrare il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Un gesto coraggioso per dimostrare la vicinanza dell’Europa al popolo ucraino e per aprire le porte all’ingresso nell’Unione. Il problema vero è quello di aiutare Kiev con ogni mezzo a resistere senza che la NATO entri in guerra. Un esercizio difficile e pericoloso, ma inevitabile per rispettare la volontà di un popolo che resiste per difendere sé stesso, ma anche i valori dell’Europa.

Una Unione europea che dovrebbe restare unita proprio nello spirito di Ursula von der Leyen, perché solo l’unità dell’Europa e dell’Occidente può far capire a Putin e alla Cina che la democrazia non significa solo debolezza e indecisione.

La guerra e la disinformazione

 Già ai tempi dell’impero zarista i servizi segreti russi erano considerati i più capaci nell’uso della disinformazione. I famigerati Protocolli dei Savi Anziani di Sion furono pubblicati per la prima volta nel 1903 in una rivista di Pietroburgo dal giornalista antisemita Kruscevan e servirono a giustificare la politica antisemita e i pogrom contro gli ebrei al tempo dello zar Nicola II.

La desinformatsiya ebbe una estesa diffusione anche al tempo di Stalin e delle purghe ricorrenti contro “i nemici della rivoluzione”, ma anche all’esterno per alimentare la propaganda del complotto delle forze capitaliste e imperialiste contro la rivoluzione bolscevica. Cose note, come è altrettanto vero che la “Guerra fredda” fu anche, se non prima di tutto, una guerra di comunicazione fatta con le armi del tempo: stampa, radio, cinema ecc.

La macchina della disinformazione russa non ha mai smesso di funzionare, prima e dopo il crollo dell’impero sovietico. Sicuramente si è fatta sentire nelle vicende europee e nella costruzione dell’Unione europea. Si pensi alla Brexit o alle presidenziali USA del 2016. Massimo Gaggi, in un bell’articolo sul “Corriere della Sera”, intitolato La Guerra mediatica (7 aprile 2022), ha ricostruito l’iter della desinformatsiya al tempo di Putin e la macchina della manipolazione e delle notizie false volte a seminare discordia in Europa e negli USA durante la pandemia, ma specialmente alla vigilia dell’invasione dell’Ucraina. L’esercito o meglio gli eserciti digitali sono, ormai, all’opera da tutte le parti, anche perché il mondo globalizzato di oggi è il mondo avvolto nella Rete delle Reti, dove la comunicazione è al centro di ogni scontro e di ogni propaganda, con strumenti sempre più pervasivi, raffinati e difficili da intercettare. Come scrive Massimo Gaggi, Putin ha messo in campo un esercito di hacker «capace di distribuire false informazioni in tutto il mondo, in molte lingue, ma anche di produrne in modo automatico attraverso i sistemi di machine learning: macchine che valutano in tempo reale il comportamento di diversi gruppi demografici di utenti e inondano la rete di nuovi messaggi simili a quelli che hanno fatto più presa nelle varie audience».

Molti gruppi no-vax si sono ritrovati nelle piazze mediatiche e televisive a sostenere le tesi più strampalate sulla guerra in corso, come se gli stessi ucraini se la fossero tirata e il povero Putin sia stato costretto a muovere migliaia e migliaia di carri armati, navi e aerei, per respingere i provocatori che si ribellavano alle “giuste” pretese dell’imperatore.

Per molto tempo si è sottovalutata la portata di queste guerre informatiche, considerandole come una riedizione della “Guerra fredda”, ma non in grado di rovinare il procedere sicuro delle liberal- democrazie. Senza calcolare che le democrazie liberali sono di per sé fragili ed esistono sempre partiti e gruppi che le insidiano dall’interno e le destabilizzano. Il caso dell’Italia, poi, è esemplare con partiti o gruppi pronti a ricevere favori da Putin o a vedere in lui o l’esponente di un conservatorismo di antichi valori o l’ultimo esponente della “gloriosa storia” del comunismo o il più agguerrito nemico dell’Occidente. Idee confuse, ma facili da penetrare in subculture politiche da sempre ostili alla democrazia e all’Occidente, così come all’Unione europea e ai suoi valori.

La guerra della disinformazione, segnalata da NewsGuard, un software che segnala le notizie provenienti da fonti non affidabili, comprende 172 organizzazioni che diffondono notizie false a vantaggio della Russia: 61 in inglese, 33 in francese, 20 in tedesco, 16 in italiano.

Alcuni siti sono chiaramente emanazione di Mosca, come Tass o Sputnik, ma anche entità anonime, oppure ancora come OneWorld Press, un centro di disinformazione filorussa fra i più attivi in rete. Non è che l’Occidente e l’Ucraina non combattano questa guerra dell’informazione. Anzi in USA ci sono centri che effettuano un monitoraggio permanente delle notizie false e lo stesso governo di Kiev reagisce prontamente sulle falsità veicolate da Mosca. Non si segnala solo la disinformazione

– le notizie false di Putin e compagnia – ma si utilizzano strategie di comunicazione volte a segnalare le azioni più disumane e distruttive della guerra dell’aggressore che, in effetti, mira a colpire le città e la popolazione civile. Ormai nessuno degli attori può trascurare l’impatto sul fronte interno e sulla platea internazionale.

Anche su questo fronte, così importante, la Ue dovrà lavorare non poco. Siccome una delle conseguenze della crisi bellica che viviamo sarà l’inflazione, di cui i tedeschi, che la provarono nel primo dopoguerra, sono terrorizzati, la Bundesbank è corsa ai ripari proprio sul piano della comunicazione. Ha allestito un gigantesco pullman che girerà per le maggiori città della Germania per tranquillizzare i tedeschi sul rischio di inflazione. Il tour per «la cultura della stabilità» toccherà in sei mesi 60 centri urbani. Persino questa iniziativa costituisce un effetto collaterale della guerra dell’informazione.

Allargamento della Unione: il rischio del successo

Il più forte segno del successo dell’Unione è stato il suo continuo, inarrestabile allargamento. Si è passati dai sei Stati fondatori del 1957 ai 27 attuali. Nel 2020 l’Inghilterra è uscita dalla Ue e non è stata cosa facile né per loro, né per la Unione. La pratica, come è noto, non è ancora conclusa.

Per uno che esce, molti vogliono entrare. Bussano alla porta della Unione molti Paesi, come il Montenegro dal 2012, la Serbia dal 2014, l’Albania e la Macedonia del Nord dal 2010, la Turchia dal 2005, la Bosnia Erzegovina dal 2016. Gli ingressi sono fermi al 2013, quando entrò la Croazia, come ha ricordato Sergio Fabbrini sul “Sole 24 Ore” (3 aprile 2022).

Nel marzo 2022 il Consiglio europeo ha chiesto alla Commissione di predisporre la complessa procedura per l’entrata della Ucraina, della Georgia e della Moldavia. La richiesta di questi Paesi è sostenuta dalla maggioranza del Parlamento europeo, con in testa i rappresentanti dei Paesi dell’Est.

La situazione dell’allargamento è diventata, però, dal 2014, una questione terribilmente delicata, proprio perché Putin l’ha percepita come una minaccia, nonostante i tentativi, fatti anche dall’Unione – si pensi a Prodi nel 2002 – per coinvolgere la Russia in questo processo. Si può dire che le classi dirigenti europee sottovalutarono la delicatezza di un processo del genere, che poteva suscitare reazioni sul quadrante orientale. Tanto è vero che la reazione di Putin non tardò a manifestarsi in Georgia e poi in Ucraina.

Ecco perché entrare a far parte della Ue risulta ancora più complesso rispetto alle già di per sé complesse procedure di ammissione, regolate dall’articolo 49 del Trattato sulla Ue (TUE). Spetta al Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo accettare o meno le richieste dei Paesi che fanno domanda di ammissione.

Nel 1993 il Consiglio europeo, riunitosi a Copenaghen, stabilì i criteri fondamentali. E cioè: istituzioni stabili, che garantiscano la democrazia e lo stato di diritto; economia di mercato funzionante e, infine, adeguamento della legislazione nazionale alle norme dell’Unione.

Processi lunghi e non semplici, ma che sinora hanno garantito l’inclusione e l’integrazione. Certamente i Paesi dell’Est europeo entrati nella Ue avevano un forte bisogno di ritrovare e difendere la loro identità nazionale, schiacciata e negata per quasi mezzo secolo.

Gli Stati entrati nel 2004-2007 avevano bisogno di recuperare la loro autonomia nazionale, cancellata nel periodo della Guerra fredda, persino con l’uso dei carri armati. Da qui anche alcune difficoltà ad accettare le regole e i principi dello stato di diritto, dell’indipendenza della magistratura e della libertà e del pluralismo della stampa. Siccome non esiste un modello di democrazia perfetta, bisogna tenere ferme le regole fondamentali previste dai trattati come orientamento di fondo. Valido per tutti, anche rispetto alle variabili politiche dei sistemi liberaldemocratici e del variare dei governi.

La disomogeneità tra gli Stati membri deriva da ragioni storiche comprensibili, ma occorre per tutti condividere i valori di fondo previsti dai Trattati.

L’appartenenza alla Ue implica la partecipazione dello Stato entrante a tutte le istituzioni europee. Si tratta di un processo da non sottovalutare e che rappresenta, nonostante tutto, un grande successo. Un fenomeno storico di straordinaria importanza di civiltà. Ogni Stato avrà i suoi rappresentanti nel Parlamento europeo. Potrà partecipare con i suoi ministri al Consiglio europeo, oltre che proporre i propri rappresentanti per i vari organismi giuridici o tecnici.

Ovviamente, mentre l’Unione si allargava, aumentavano anche i problemi di convivenza e più ancora di decisionalità. Tanto è vero che la logica intergovernativa si è imposta, ma con trattative defatiganti e compromessi continui.

I Paesi dell’Est Europa, così come vorrebbe anche l’Ucraina, sono entrati nell’Unione anche per garantire la propria autonomia nazionale. Nello stesso tempo l’ingresso nella Ue necessita di privilegiare le decisioni comuni e quindi sacrificare parte della sovranità nazionale. È questo il grande problema che ha segnato la storia del passaggio dalla Comunità all’Unione e poi la progressione dell’allargamento che ha dato e dà fastidio a Putin. Il problema è che i popoli e le nazioni hanno il diritto di autodeterminazione e anche di scegliere con chi stare.

I carri armati non sono un buon argomento per scegliere in libertà, ma la libertà è un valore che i regimi autocratici non sanno apprezzare.

Bollino Rosso sul vino: una vittoria in Europa

La minaccia del bollino rosso, che pendeva sui più grandi produttori di vino del mondo, Italia, Francia e Spagna, è stata sventata. La discussione in sede Ue per colpire il consumo del vino, assimilato agli altri prodotti alcolici, si è risolta con il trionfo del buon senso. La Commissione BECA del Parlamento europeo, una Commissione contro il cancro o meglio i prodotti cancerogeni, ha finalmente accettato la distinzione fra uso e abuso di alcolici. Il salutismo estremista, unito al proibizionismo, è stato sconfitto dalla maggioranza del Parlamento europeo, “la maggioranza Ursula”, comprendente Ppe, S&D e Renew Europe.

Un ruolo importante lo ha svolto l’europarlamentare Paolo De Castro, più volte ministro delle Politiche agricole. De Castro ha sottolineato che occorre sempre fare una differenza fra uso e abuso, non solo per il vino. Dal momento che in natura non esistono cibi o bevande assolutamente sicuri. Per quanto riguarda il vino, poi, occorre ricordare che un uso moderato costituisce una componente importante di una dieta come quella mediterranea che ha ottenuto riconoscimenti scientifici a livello internazionale.

Come sappiamo, la Toscana è la terza regione italiana in fatto di produzione di vini di qualità ed è famosa in tutto il mondo per la sua tradizione enogastronomica. La presenza del bollino rosso avrebbe danneggiato non poco un settore portante dell’economia toscana, così strettamente legato alla vitivinicoltura. Per questo la notizia che viene dalla Commissione BECA è una buona notizia.

I consumi di vino hanno subito i riflessi negativi nel biennio pandemico ed altri danni verranno di sicuro dalla guerra in Ucraina e dalle sanzioni alla Russia di Putin. Si tenga presente che l’export del vino italiano vale più di 7 miliardi (2021). I consumi complessivi di vino erano a quota 14,8 miliardi nel 2019, ma nel 2020, specialmente a causa della chiusura dei bar e dei ristoranti, sono calati a 12,5 miliardi. Nel 2021 sono risaliti a 13,8 miliardi. Speriamo che la guerra in corso non pregiudichi la ripresa.

In vista della riapertura in presenza della grande esposizione di Vinitaly a Verona, dopo due anni di fermo, sono state rese note delle indagini sui consumi dei giovani, che si stanno avvicinando al vino con gusti particolari. Privilegiano il vino con le bollicine, la mixology, cioè gli Spritz o i vini poco alcolici, i vini ecosostenibili. Così, mentre in Europa si è sventata la minaccia del bollino rosso, da Verona potrebbe arrivare la proposta di un “bollino” che consenta di distinguere le produzioni di vino sostenibile.

Chi vivrà, vedrà, ma intanto l’idea di un “bollino rosso” per la vendita dopo le 21 di birra, vino e vodka andrebbe davvero sostenuta. Valentina Marotta su questo giornale ha bene illustrato la situazione di illegalità che ha portato alla chiusura, a Firenze, in Santa Croce, sotto gli occhi di Dante, di due minimarket che hanno accumulato ben 27 sanzioni per la violazione del divieto di vendita di alcolici dopo le 21. Si tratta di una lotta contro una pratica illegale che colpisce particolarmente i giovani e che l’assessora alla Sicurezza urbana, Benedetta Albanese, sembra intenzionata a portare avanti con decisione.

In questo caso la risoluzione presa dal Parlamento europeo, sul bollino rosso, a favore di un consumo moderato e consapevole del vino, andrebbe affissa alle porte e alle vetrine di questi negozi, che sembrano aggirare tutti i provvedimenti per la violazione del divieto di vendita di alcolici dopo le 9 di sera. Per ben 27 volte erano già stati multati.

Bisogna proprio dire che a tutto c’è un limite. Dante li potrebbe condannare, come Ciacco, nella terza bolgia dell’Inferno, per incontinenza.